Cronaca
Martedì 17 Marzo 2015
Parla l’eretico dei pizzoccheri: «È giusto innovare i piatti»
Lo chef Andrea Ribaldone torna sulla ricetta rivisitata nel programma di Antonella Clerici. «L’ho resa più leggera per le massaie di tutta Italia
e per poterla preparare anche fuori dalla Valle».
Da alcune settimane in Valtellina c’è una vivace polemica sulla ricetta dei pizzoccheri. Lo chef milanese Andrea Ribaldone, uno dei protagonisti del celebre programma televisivo “La prova del cuoco”, ha proposto agli italiani una ricetta alternativa rispetto a quella tradizionale. A molti valtellinesi, che considerano questo piatto uno degli elementi centrali dell’identità valligiana, questa scelta non è piaciuta. Per chiarire l’origine di questa gustosa discussione abbiamo pensato di rivolgerci direttamente allo chef e siamo andati a trovarlo nella cucina del ristorante “Ai due buoi” di Alessandria, in Piemonte.
«La premessa dev’essere chiara: conosco la Valtellina, è una terra che amo, ci ho abitato per più di un anno, volevo diventare maestro di sci e posso dire di sentirmi anche un po’ valtellinese. La mia famiglia ha una casa ad Aprica, ci torniamo tutti gli anni con grande piacere».
Ma come le è venuto in mente di proporre questa ricetta alternativa, che le è valsa il soprannome di “eretico dei pizzoccheri”?
«Come cuoco gastronomico moderno penso che sia un diritto, per me e per tutti i giovani colleghi, reinterpretare le ricette. In tv non ho mai riproposto versioni classiche dei piatti. Io amo molto quella dei pizzoccheri e la conosco bene, quando torno in valle li mangio volentieri. Però credo che al tempo stesso, proponendola in un programma nazional-popolare, ci sia la possibilità di reinterpretarla, rendendola più leggera. L’obiettivo è di far venire voglia anche alle casalinghe di Catania o di Bari di preparare un buon piatto di pizzoccheri».
Torniamo alla polemica: com’è nata questa vicenda?
«Il pomo della discordia, a “La prova del cuoco”, era il latte. Non ne ho buttato direttamente nei pizzoccheri. Ho fatto una fonduta di Casera, invece di mettere il formaggio a pezzi interi. Ho aggiunto dell’olio, anziché puntare esclusivamente sul burro. Questa scelta, lo ribadisco, è stata dettata dalla necessità di rendere il piatto più leggero, per agevolarne la preparazione anche lontano dalla Valtellina. Si tratta di una specialità che non dev’essere degustata solo dopo una giornata sugli sci d’inverno. Io ricordo che, quando vivevo a Teglio, le cuoche del paese proponevano versioni differenti, con i fagiolini e le coste, ad esempio. D’estate, al mare, mi piace preparare questa pasta con l’olio extravergine, è buonissima. Spostandoci qui in Piemonte, pensiamo agli agnolotti: ad Alessandria si preparano con carne d’asino e vino rosso, ma basta percorrere qualche chilometro verso i colli per assaggiarli con maiale, verdure, vitello e coniglio. La nostra cucina non è codificata da secoli e secondo me c’è una sola regola di fondo: un piatto può essere buono o cattivo. Oggi va benissimo l’esperienza gastronomica del Nord Europa, perché è libera d’innovare e creare».
In questi giorni s’è letta la metafora del cuoco-pittore. Qual è il significato?
«È come se un pittore dovesse rifare il Caravaggio, se uno scrittore fosse chiamato a riproporre Dante. Non avrebbe senso. Ho parecchi amici in Valtellina, terra di ristoratori d’alto livello come Stefano Masanti a Madesimo, Mattias Peri a Livigno e Antonio Borruso a Bormio, facciamo parte insieme di Chic, Charming italian chef. L’aspetto di cui si parla, in queste settimane, è la valorizzazione delle tipicità in un’ottica moderna. Noi cuochi non ci vogliamo paragonare ad artisti di questo calibro, ma sicuramente ogni ottimo artigiano ha bisogno di innovazione. C’è la necessità di credere nel futuro, partendo dalle proprie radici, sperimentando. Dobbiamo rendere apprezzabili e fruibili, nel 2015, i piatti che hanno una lunga storia. Ah, vorrei precisare che se ne discute con il sorriso sulle labbra, non siamo dei neurochirurghi».
Di queste tematiche, in provincia di Sondrio, si occupa l’Accademia del pizzocchero, associazione che si propone di valorizzare questo piatto tipico soffermandosi, oltre che sulla ricetta originale, sulla storia della pietanza e sul valore del grano saraceno.
«Innanzitutto saluto Rezio Donchi e gli altri collaboratori impegnati in questo ambito. Mi piacerebbe che l’Accademia del pizzocchero potesse dare un impulso sempre maggiore alla coltivazione del grano saraceno. So che si stanno promuovendo dei progetti importanti, sarebbe bello assistere a un’intensificazione di questi percorsi. Poi non possiamo dimenticare i formaggi, a cominciare dal Casera: bisogna far sì che sia solo valtellinese, difendendone il marchio».
Da una vallata svizzera limitrofa alla Valtellina, la Val Poschiavo nel Cantone dei Grigioni, arriva l’esempio di una zona bio. Un percorso centrale anche in vista di Expo, un appuntamento che tra le altre cose vedrà impegnate insieme la Provincia di Sondrio e i vicini elvetici. Qual è il suo punto di vista?
«La provincia di Alessandria è un bell’esempio di riscoperta di un’antica tradizione con la produzione del Timorasso, un vitigno riaffermatosi solo negli ultimi anni. Io nel mio ristorante ho una carta dei vini che privilegia il biologico, il biodinamico, le “triple a” degli agricoltori artigiani artisti. A mio parere è la strada giusta per il futuro. Bisognerà puntare sempre di più sul bio. Dobbiamo crederci: l’Italia dev’essere sempre di più enogastronomia d’altissimo livello».
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