Sonya Caleffi è già una donna libera

Morti in corsiaL’infermiera di Tavernerio è tornata in libertà dopo poco meno di 14 anni di carcere
In affidamento in prova ai Servizi sociali a Milano - Ritenuta responsabile di 5 omicidi e due tentati omicidi

Sonya Caleffi è di nuovo una donna libera. Lo è da tre settimane, dal primo ottobre per la precisione, anche se la notizia - pur attesa - è stata confermata ufficialmente solo ieri.

L’ex infermiera, ribattezzata dalle cronache giornalistiche “l’angelo della morte”, oggi 48 anni, originaria di Tavernerio, nel Comasco, venne arrestata il 14 dicembre 2004 con la pesantissima accusa di aver ucciso 28 pazienti, 18 quando lavorava all’ospedale Manzoni di Lecco e 10 all’ospedale Sant’Anna di Como.

Secondo l’accusa, i malati, perlopiù anziani, erano stati uccisi attraverso un’iniezione d’aria direttamente in vena che aveva provocato un’embolia.

Mettersi in mostra

Riconosciuta colpevole di cinque omicidi e di due tentati omicidi, la donna venne condannata in via definitiva a vent’anni di reclusione. A conti fatti, è uscita dal carcere di San Vittore - dove, nel 2010, si è sposata con un altro detenuto - dopo meno di 14. Ora vive a Milano, con affidamento in prova ai Servizi sociali secondo quanto prevede l’articolo 47 della legge 354/75. Ma è una donna libera.

Un caso, quello della Caleffi, che ha sconvolto l’opinione pubblica, e non solo a livello locale. A una domanda non fu mai possibile dare una risposta chiara, netta e univoca. Perché? Perché Sonya Caleffi si è resa responsabile di così tante morti?

L’avvocato lecchese Claudio Rea, che ha seguito tutti e tre i gradi di giudizio, in una lunga intervista rilasciata al nostro giornale alcuni anni fa, rileggendo il caso con la distanza del tempo, aveva dato la sua chiave di lettura: «Sonya, per paradosso, non aveva intenti omicidi, anzi il suo obiettivo era quello di “mettersi in mostra” di fronte ai medici e alle colleghe infermiere. Aggravava la situazione dei pazienti per poi intervenire e salvarli, dimostrando in questo modo quanto fosse brava nel suo mestiere. In realtà spesso il quadro clinico degenerava e portava alla morte dei pazienti, il che le provocava ancora più frustrazione».

La psicoterapia

«Se non fosse stato per la sua confessione - aveva spiegato ancora l’avvocato Rea, autore, sul caso Caleffi, del romanzo “Difesa d’ufficio” (Baldini e Castoldi) - a Sonya avrebbero potuto attribuire un solo omicidio, quello di Cristina Maria di Dorio, morta a 99 anni. Per gli altri episodi è stata necessaria la sua collaborazione, altrimenti non si sarebbe riusciti a provare il nesso causale».

«In questi anni di carcere Sonya ha fatto un lunghissimo lavoro psicoterapeutico - diceva Rea -. Con l’aiuto di uno psichiatra, ha preso coscienza del disvalore delle sue azioni: di aver commesso reati, cosa che lei ovviamente prima non percepiva». 

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