Frontalieri, il partito del no
«Ci sarà un assalto
ai permessi di lavoro»

L’Udc ticinese contesta i contenuti dell’intesa tra i due Stati. Nel mirino la tutela degli attuali lavoratori: «I presupposti erano diversi»

Il nuovo accordo tra Svizzera e Italia sulla fiscalità dei frontalieri non convince sino in fondo il Canton Ticino o almeno una larga parte della politica ticinese.

«I 67 mila attuali frontalieri non verranno minimamente toccati dall’accordo e non verranno chiamati a pagare più imposte», fa notare il consigliere nazionale dell’Udc, Piero Marchesi. Ma il tema che pone l’Udc - partito dai chiari connotati anti-frontalieri - è anche un altro: «Solo i frontalieri assunti a partire dal 2023 pagheranno più imposte. Si prospetta dunque una corsa alle assunzioni di permessi “G” nei prossimi mesi».

Un tema questo che anche la Lega dei Ticinesi ha posto con vigore, anche perché nulla lasciava presagire che - in piena pandemia - i nostri lavoratori impiegati in Ticino superassero la quota record di 70 mila (dato rilevato al 30 settembre), fermo restando che su questo exploit pesa il ricorso su larga scala ad assunzioni - limitate nel tempo - attraverso società interinali. «I presupposti - chiosa Piero Marchesi, in un lungo post su facebook - erano quelli di tassare tutti i frontalieri. Così non è stato». Eppure, subito dopo la firma avvenuta mercoledì 23 dicembre a Roma, il presidente del Consiglio di Stato ticinese, Norman Gobbi, esponente di punta della Lega dei Ticinesi, aveva parlato di «un accordo da cui il Canton Ticino trarrà un importante vantaggio economico, fatto questo di rilievo in un momento di grande difficoltà economica». Con l’aumento della base imponibile per i nuovi frontalieri - base che passa dal 70% dell’accordo del 2015 all’attuale 80% - «non da subito ma progressivamente avremo un guadagno di cui potranno beneficiare il Cantone ed i Comuni ticinesi», le parole del consigliere di Stato, Christian Vitta. Lo stesso Vitta ha aggiunto che «gli introiti dovrebbero ammontare a svariate decine di milioni di franchi».

Ma certo, la strada è ancora lunga. Il Governo ticinese, per avallare la scelta del Consiglio federale, avrebbe messo sul tavolo una richiesta, finita un po’ in secondo piano vista l’importanza dell’accordo sottoscritto mercoledì, ma non per questo di minore importanza ovvero l’accesso delle banche svizzere al mercato italiano.

Un tema questo che in una nota il Partito Liberal Radicale - partito a cui fa riferimento Christian Vitta - ha subito rilanciato con vigore: «L’accesso al mercato italiano da parte dei fornitori di servizi finanziari svizzeri è una questione strategica per il Canton Ticino». Da rimarcare anche la presa di posizione della Lega dei Ticinesi, che - attraverso una nota - ha posto l’accento sulla «scarsità dei risultati raggiunti» con l’accordo sottoscritto a Roma tra Italia e Svizzera.

Il partito di via Monte Boglia ha posto in primo piano la questione dei ristorni, che «continueranno ad essere versati per i prossimi 15 anni» e «tutto ciò è inaccettabile». «Ad oggi - fa notare la Lega dei Ticinesi - il Canton Ticino versa all’Italia 100 milioni di franchi senza motivo».

Gli aiuti

I milioni di franchi staccati con l’ultimo assegno sono 94 (85 milioni di euro) e sino al 2033 l’attuale meccanismo che si poggia sul solido asse tra Berna e Roma è garantito. «I ristorni sono in continua crescita e avanti di questo passo 15 anni equivalgono a un miliardo e mezzo di franchi che partirebbero senza motivo in direzione Italia», la sottolineatura del partito di via Monte Boglia. Il dibattito resta più che mai aperto, considerato che ora l’accordo dovrà passare al vaglio dei due Parlamenti.

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