Anche l'economia italiana è stata rovinata dal doping che, in questo caso, si è chiamato evasione fiscale e, come per il ciclismo, ha rappresentato una droga che ha snaturato i meriti e la performance della nostra economia e della nostra industria.
Per decenni le industrie italiane hanno goduto di due vantaggi essenziali: primo, la possibilità di svalutare la lira, grazie alla quale le esportazioni italiane riuscivano ad essere più competitive, anche se ciò andava a scapito del costo della vita, a causa della maggiore inflazione importata (soprattutto attraverso gli acquisti di petrolio); secondo, l'evasione fiscale - provate ad immaginare un esportatore che, a differenza dei propri concorrenti, riesce a non pagare le tasse: parte di quel risparmio del 30-40% potrà tradurlo in minori prezzi.
Con l'ingresso dell'Italia nell'euro, il vantaggio della svalutazione è venuto meno. Per le imprese si è anche indebolito quello dell'evasione fiscale, la cui tassazione oggi (anche a causa dei vincoli comunitari) è molto più rigorosa. Vediamo, infatti, quanto sia faticoso per il nostro paese generare surplus commerciali, ora che deve dipendere solo dalla propria produttività e non può più contare sulla "droga" svalutazione-evasione.
L'evasione, però è rimasta endemica nei settori poco esposti alla competizione internazionale: professioni, piccolo commercio ed artigianato, servizi, turismo.
La seconda conseguenza negativa dell'evasione fiscale è stata la crescita del debito pubblico, cui peraltro corrispondeva un paese altamente risparmiatore, capace di accumulare ricchezza, che fa da contraltare all'indebitamento dello stato: privati "formica", insomma, e pubblico "cicala". La realtà è leggermente diversa: i privati hanno generato parte dei propri risparmi grazie alla possibilità di non dovere pagare le tasse, finanziando così un debito pubblico che in una certa misura era proprio indotto dall'incapacità dello stato di raccogliere le imposte. Se l'evasione fiscale fosse stata meno diffusa e significativa, i privati sarebbero oggi un po' meno ricchi e lo stato un po' meno indebitato.
E lo stock di debito accumulato dallo stato italiano si sta trasformando per il nostro paese in quello che decenni di abuso del doping diventa per un ciclista: un serio rischio per la sua vita. Già in passato gli economisti (primo fra tutti Carli) osservarono come l'ingente debito pubblico "spiazzi" il credito alle imprese. Dovendo continuamente rifinanziare il debito pubblico, infatti, lo stato deve offrire buoni tassi d'interesse sui titoli pubblici: le banche, quindi, li preferiranno ai prestiti alle imprese ed i privati li preferiranno ai depositi bancari o alle obbligazioni industriali. Il fenomeno è destinato ad accentuarsi con "Basilea 3", cioè le regole varate per regolamentare i rischi assunti dalle banche ed evitare una nuova crisi. Imponendo a queste di essere prudenti, ancora una volta, le indurrà a preferire l'impiego relativo in titoli pubblici piuttosto che prestiti alle piccole-medie imprese o alle famiglie. Il risultato sarà un sistema bancario, nonostante gli slogan, poco propenso a finanziare l'economia.
L'economia italiana deve sapere correre veloce, superare le salite e vincere gli avversari. Senza doping però.
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