Successi sportivi che si prestano a essere applicati ad altri campi, ancorché non popolati di uomini con canottiere numerate addosso. Storie che vanno oltre alle pagine per le quali sono pensate.
La finale scudetto conquistata da Cantù, trent'anni dopo l'ultima scalata alla vetta, è una di quelle imprese.
Nella gioia sincera e spontanea dei canturini al Forum di Assago c'è tutto ciò che serve per una lezione, una doccia che sciacqui via gli arrembanti pessimismi che affollano ogni settore della nostra quotidianità. Lungi dall'idea di trasformare una partita di basket in un trattato filosofico o di ammantarla di significati esoterici, non sembra però fuori luogo leggere in un evento sportivo qualcosa che vada oltre al risultato finale proposto dal tabellone. E che tracimi dall'economia alla politica come un monito. Quasi una stella polare a cui guardare per recuperare quel senso dell'orientamento che una crisi multisettoriale ha fatto perdere ai più.
L'urlo di felicità dell'umile Trinchieri al termine del derby vinto a Milano suona come il «Si può fare» che il protagonista di Frankenstein junior grida di fronte all'utopia di restituire la vita a un corpo inanimato. Davvero «si può fare», se con un budget lontano anni luce dalle follie economiche di squadre come l'Armani si raggiunge una finale scudetto. Davvero «si può fare», se dopo trent'anni la favola Cantù, il miracolo della piccola città tutta bottega e palazzetto capace di imporsi in Italia e in Europa, viene ancora raccontata ai ragazzini. E sì, davvero «si può fare» se la classe operaia degli Ortner, dei Leunen, dei Micov, dei Marconato diretti da un fuoriclasse del calibro di Mazzarino maltratta (sportivamente parlando, ovvio) i pluristipendiati avversari e annichilisce le grandi griffe della moda e dell'imprenditoria (Giorgio Armani, tanto per intenderci) o del calcio (il dg del Milan Adriano Galliani, tanto per capirci) raggiungendo quel paradiso che le sembrava precluso per censo. Una classe operaia che, tutta insieme, fatica a raggiungere lo stipendio di un mediocre calciatore di serie A, ma che mai si venderebbe una partita e l'anima per una scommessa sicura.
Da domenica l'Italia che conosce solo il lamento del «non ci sono soldi» ha qualche freccia in faretra in meno, di fronte al sorriso di Bruno Arrigoni e alla sua chioma bianca conquistata in anni di scelte azzeccate, impegno e investimenti frutto più di saggezza che del portafoglio. E pure l'Italia che si trincera dietro al «non investo, tanto non serve» ha qualche argomento in meno, pensando al sorriso timido ma felice di Anna Cremascoli di fronte ai mille e più canturini che festeggiavano al forum. Così come l'Italia della politica (e qui, ahinoi, siamo costretti a infilare nell'elenco pure Cantù e il suo maledetto Palababele) si ritrova senza più scuse credibili, di fronte a quell'immobilismo sempre colpa di qualcun altro. Cari politici, rileggete le dichiarazioni di coach Trinchieri: «Dopo la sconfitta in gara tre ho detto ai miei che dovevamo smettere di recriminare e fermarci a protestare contro le decisioni arbitrali, ma pensare a giocare». Che lezione. Ma non preoccupatevi, cari politici, non avete nulla da temere. Dopotutto è solo basket.
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