In realtà la follia sposa benissimo la normalità. Se la mentalità comune fatica a farsene una ragione, la psichiatria lo ha compreso da parecchio tempo. Basti ricordare gli studi di Ludwig Binswanger (1881-1966), il medico filosofo del «Bellevue Sanatorium» di Kreutzlingen, meglio noto come il Sanatorio della «Montagna Incantata» di Herman Hesse. Egli spiegò il disagio psichico come un distacco dalla realtà, un disorientamento che fa perdere alla persona qualsiasi coordinata cosiddetta "normale".
Cosa succede, precisamente? Nei casi più gravi l'essere umano non si percepisce più come un soggetto, bensì come «cosa tra le cose». A quel punto il vuoto diventa l'unico appiglio della sua esistenza. Dietro alla follia, termine con cui ci figuriamo soprattutto la brutalità della condizione del malato psichico, esiste anzitutto un disagio.
Certo, è difficile pensare a questa componente di sofferenza, quando la persona compie delitti tanto dirompenti quanto assurdi. Ma ogni discorso sulla pazzia - termine bandito dalla riflessione psichiatrica, tuttavia presente nel lessico semplificato dei nostri discorsi quotidiani - non può prescindere dalla patologia dell'essere umano. Solo ampliando la riflessione in senso antropologico riusciamo a tornare al problema di partenza - «perché la follia insorge nella normalità»? - con una risposta, benché provvisoria. E per nulla rassicurante, dal momento che siamo tutti esposti al rischio di perdere il contatto con il mondo della vita.
Assurdo? Niente affatto. Le depressioni, male contemporaneo, sono l'esempio della pervasività del disagio psichico, a tutte le età e in tutti i ceti. Vi è poi la stanchezza morale, il non riconoscere più il valore positivo della vita: studi psichiatrici evidenziano come l'accidia (vizio capitale per la fede cattolica) presenti un interessante (e inquietante) risvolto antropologico. In altri termini, la perdita di realtà si collega al venir meno dell'esperienza del bene pre-morale, come concretezza e realtà. Un male, questo, che tocca da vicino, proprio i più giovani e li mette nella condizione di spegnere anzitempo al propria ricchezza esistenziale. O l'anima, come direbbe Tommaso d'Aquino («Summa Theologiae», II-II, q. 35, a.3.), consegnandosi alla distruzione di sé (e sempre più spesso, come a Milano, degli altri).
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