La storia di una donna, che da più di un anno giace in un letto, in uno stato vegetativo, in coma e non si sa ancora se potrà riaprire gli occhi, che viene licenziata perché sono scaduti i termini di legge relativi alla sua assenza dal posto di lavoro, è indicativa nel mostrare che qualcosa non funziona più nel nostro porci nei confronti dell'altro, che la cultura che si sta imponendo è quella dell'egoismo e del cinismo fine a se stesso. Questa donna è già in una condizione di fragilità, ma il suo corpo ci dice che la forza della vita è più clemente di quella degli uomini, perché gli ha permesso, in questa condizione, di portare a termine la quarta maternità e di dare alla luce una bambina. E una nascita è una prospettiva di speranza, quella stessa speranza che noi tendiamo a negare, togliendo a questa donna il diritto al posto di lavoro, soprattutto in una situazione così delicata per lei. Non è sul caso in sé che va affrontata la discussione: se nella decisione del licenziamento al posto del fattore numerico si fosse applicato quello umano, o ad esso si sia almeno pensato, si sarebbe evitato tanto dolore per la famiglia in primis e soprattutto non si sarebbe commessa una palese ingiustizia. L'offesa recata al corpo steso su un letto d'ospedale di questa donna ci deve aiutare a riflettere su come sia possibile costruire o pensare ancora ad una società che si possa dire civile, quando il più debole non è rispettato.
Qui sta il punto: se continuiamo ad uccidere l'umanità che sta dentro di noi, se la soffochiamo per far quadrare i conti o per non intralciare il funzionamento dell'attività lavorativa, non ci resta più niente, solo una concezione prettamente materialista dell'esistenza che abolisce tutti i valori, la condivisione del dolore, l'aiuto in caso di bisogno, la garanzia in caso di malattia grave.
Siamo tutti pronti a difendere la vita, a parole però. La vita invece va difesa nel suo diritto di mantenere i propri diritti, anche quello al lavoro, soprattutto nelle condizioni più drammatiche. Allora se è così in crisi il fattore umano, abbiamo bisogno di ritornare, tutti, a scuola di umanità, per poterla applicare nelle nostre azioni e nelle nostre decisioni. E' un principio non solo cristiano (le Beatitudini che bisognerebbe recitare come preghiere o come rosari dicono molto in questo senso), ma anche estremamente laico, perché un atteggiamento corretto avrebbe proposto altro, in altre forme e con altre parole, alla vita vegetativa di questa donna, non per pietà, ma per rispetto del suo dolore, dei suoi figli, della società stessa in cui vive. Allora se è così difficile ritornare a pensare in termini di "fattore umano", vogliamo essere provocatori fino in fondo e chiedere una Legge specifica che non dia adito ad interpretazioni e proponga una prospettiva di speranza e di sostegno a tutti coloro che si trovano nella condizione di questa donna. Una società civile, se il fattore umano viene meno, deve farlo diventare regola, affinché ritorni a diventare forma della nostra civiltà.
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