Chiare le ragioni di questo viaggio in Carroccio su un doppio binario. In primo luogo la necessità di placare una base sempre meno disposta all'abbraccio con il Pdl. E poi la campagna elettorale, che in Italia è sempre aperta. Figuriamoci poi quando manca una manciata di mesi al voto per le amministrative sul Lario e forse pure per le politiche.
Resta da capire se questa ambiguità, paghi. Se il tradimento seguito dal pentimento porti voti. E soprattutto in che direzione possa sboccare una simile strategia. Alla prima e alla seconda domanda sembrano aver già risposto gli elettori alle ultime consultazioni amministrative da cui la Lega è uscita come dopo una robusta cura dimagrante.
Il terzo quesito resta sospeso e porta a puntare la lente su un movimento che attraversa una crisi evidente. Perfino la leadership di Bossi, rimasta salda anche dopo la grave malattia, vacilla sotto i colpi di Maroni, uno che a questo governo predilige certamente la lotta. Il risultato è una guerra tra correnti che si rifrange anche sugli equilibri della periferia, sia nei rapporti con l'alleato, sia nella dialettica interna. Va poi aggiunto come, la ragione sociale del Carroccio, il federalismo fiscale, man mano che svela il suo vero volto, sembra rivelarsi come qualcosa che fa tremare i polsi ai contribuenti già stremati dalla manovra dell'ex amico dei lumbard, Giulio Tremonti. Tutto il contrario, o quasi, rispetto alle aspettative delle folle che plaudevano ai comizi quando l'Umberto lanciava la parola magica: «Federalismo».
Sarà per questa ragione che il Senatur ha soffiato via la polvere da un'altra parolina che scaldava il cuore della base: «Secessione»?
Un po' chiarezza, insomma, dalle parti di via Bellerio non guasterebbe. Perché l'impressione è che rispetto ai tempi in cui si ostentava una certa durezza, nel Carroccio sia subentrata una certa duttilità. Più che di lotta, insomma sembra una Lega di latta, materiale solido ma pieghevole. Così però anziché governare, si sgoverna. A Roma come sul Lario.
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