Lo si capisce proprio dagli eventi fatti di economia domestica che hanno dominato le cronache Usa nelle ultime settimane, ovvero nell'estremo, tardivo sospirato tentativo di trovare rimedio a quel deficit di bilancio del governo, senza il quale si sarebbe andati incontro al famoso default federale. I repubblicani avversari del presidente Obama, ma sarebbe forse meglio dire l'intera Washington, hanno lasciato scivolare fino sul limitare dell'irreversibilità la crisi che attanaglia la nazione, pur di sparigliare il tavolo nella centrale di comando. Al di là della salomonica sanatoria finale, questa è la più profonda delle sconfitte del presidente in carica.
La sconfitta di Obama si descrive nell'estrema polarizzazione messa in scena oggi dal paese che governa, proprio quando il suo appello fondamentale era stato quello dell'unità che rinverdisse i tempi d'oro dello "sforzo nazionale", di un impeto che trovasse la sua ragione primaria non nell'appartenenza a uno schieramento, ma nel proprio orgoglio di americani. Questa filosofia basilare di Obama è stata spazzata via dal nervosismo degli avversari e dei suoi stessi sostenitori nel tentativo di ricollocare la visione tradizionale della politica (centri di potere secondo logiche gerarchiche e piramidali) in sostituzione dello scenario trasversale proposto dal nuovo presidente.
Col passare del tempo, la linea che è passata (e questa sì, su base bipartisan) è stata quella del cinismo: attribuire alla visione di Obama un attestato di utopia che la umilia, lasciando prevalere le vecchie logiche washingtoniane dello scambio e della spartizione. In questo riproporsi di un'antica messinscena il grande intruso può finire per diventare proprio la figura, ormai debolmente profetica, del presidente.
Di fronte all'esposizione di punti di vista opposti al suo su come tenere a galla la barca dell'economia, mentre il tempo stringe, il disaccordo si diffonde e la sfiducia aumenta, appare evidente che l'idea sia di delegittimare il grande potere decisionale accordato al presidente, restituendo alle Camere il potere di vita e morte sul futuro della nazione.
Un ricatto spietato e stupido, animato più dallo spirito di rivincita contro l'uomo che osò proporsi come innovatore, che dalla necessità di dare un futuro al paese. Ma anche un meccanismo politico così estremo da mettere in discussione la credibilità di Obama e quella qualità del suo operato che sembravano garantirne la rielezione. Come finirà? Dal punto di vista finanziario, con un pastrocchio malamente improntato all'"arrivano i nostri", salvo ritrovarsi il giorno dopo a confrontarsi con lo stesso problema. Dal punto di vista politico con uno scenario di caos, prodotto dalla perdita d'incisività di Obama nel controllo della nazione. Da un punto di vista personale, con il peggiore 50esimo compleanno di quest'uomo prematuramente sbiancato nei capelli. A salvarlo, come nel 2008, non sarà certo il mondo della politica tradizionale. Ma solo la volontà degli elettori e il loro desiderio di partecipazione. Sempre che sia rimasto in circolo. E abbia ancora voglia di credere in lui.
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