C'è interesse per quanto dirà oggi il premier Silvio Berlusconi, alla Camera e al Senato, sui futuri propositi del governo. L'attesa è connessa al fatto che il governo non è mai stato tanto in bilico e, cosa ben più grave, il Paese è in una condizione economica sempre più difficile.
Non solo abbiamo avuto un decennio senza crescita, ma negli ultimi mesi la situazione si è ulteriormente aggravata: in particolare, è cresciuta la sfiducia verso le istituzioni proprio mentre gli interessi connessi al debito pubblico salivano ai massimi, peggiorando i conti dello Stato. Non bastasse tutto ciò, scandali su scandali stanno minando la credibilità dell'Italia, coinvolgendo lo stesso ministro dell'Economia, Giulio Tremonti.
È difficile immaginarsi grandi novità dalle parole di Berlusconi, soprattutto perché sono ormai vent'anni che egli combina una retorica liberale di facciata e una pratica effettiva di stampo statalista. Nella sostanza, poco o nulla è stato fatto per ridimensionare lo Stato, liberalizzare i mercati, ridurre tasse e spesa pubblica. La distanza tra proclami e comportamenti è evidente e proprio per tale motivo c'è tanto scetticismo sulle prospettive del Paese.
Per vincere tale diffidenza Berlusconi non dovrebbe dunque sviluppare analisi, ma annunciare qualcosa di concreto: un progetto dettagliato su cosa tagliare, cosa privatizzare, cosa liberalizzare. L'elenco delle cose da farsi è lunghissimo e quindi egli ha di fronte a sé un'ampia gamma di possibilità. Potrebbe dirci, ad esempio, come intende sottrarre ai lottizzati di Stato quelle imprese che ancora sono di proprietà pubblica: dalle Poste alla Rai, dalle Fs all'Eni, da Finmeccanica all'Enel. Sarebbe certo una gran cosa se Berlusconi annunciasse che i boiardi di Stato dei consigli di amministrazione delle aziende parastatali dovranno scordare le loro rendite principesche e dovranno trovare una società privata che creda nei loro meriti e li scelga per quanto valgono, e non già per la loro appartenenza politica e i loro legami personali.
Oppure Berlusconi può spiegare come aprirà al mercato la professione del notaio e quella del farmacista, o come abbasserà il debito pubblico cedendo i beni demaniali. Può abolire le province o impostare una riforma in stile britannico della funzione pubblica, eliminando 500 mila dipendenti pubblici sulle orme di David Cameron. Non è più tempo di scenari, insomma, ma di decisioni nette. Scelga un tema e i mercati apprezzeranno.
Ci dica cosa vuole fare e poi agisca, dettagliando il piano di almeno uno di questi progetti. L'importante è che non ripeta buoni propositi, non reciti ancora una volta la parte della vittima o, peggio ancora, non creda di sostenere lo sviluppo con ulteriori opere di Stato finanziate dal Cipe o con follie sulla falsariga della Banca del Mezzogiorno. Gli operatori di mercato che ogni giorno monitorano i nostri conti non vogliono parole né programmi demagogici, ma scelte concretamente orientate a liberalizzare l'economia.
Se non sarà così, dobbiamo essere consapevoli che le nostre chance di sopravvivere alla crisi europea dei debiti sovrani si assottiglieranno sempre di più.
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