Ma la risposta che al suo lutto ha dato la madre di Sovico - cui hanno ammazzato con i cocci d'una bottiglia il figlio diciottenne - non è una risposta solita. E' insolita. E' d'una cifra insieme fragile e forte. E' d'un fuoco spirituale che agghiaccia. E' una risposta che evoca l'antica domanda: siamo fatti per il bene e solo saltuariamente il male contrasta quest'inclinazione o dobbiamo credere che sia vero il contrario? Che le tenebre del male di tanto in tanto sono tagliate dal raggio di luce del bene?
Questa donna di Sovico (questa straordinaria donna) ha detto dell'assassino di suo figlio: bisogna mettere l'odio da parte. Ha aggiunto: mi dispiace per lui, per quello che dovrà sopportare e superare, e mi dispiace per i suoi genitori. Ha concluso: spero che la vicenda sia d'esempio per i giovani, la vita merita rispetto. Riepilogando: ha detto poco e insieme tutto. Con la semplicità dei misericordiosi, la voce bassa, lo sguardo dolce, gli occhi asciutti. Come se non fossero pieni di lacrime.
Naturalmente lo erano. Lo sono. Lo saranno. Perché il tempo non guarisce l'offesa all'intimità degli affetti. Semmai l'acuisce. Ne fa uno stigma. La trasforma in penitenza continua. Ma a volte le lacrime sanno essere asciutte, quasi che intendano trasmettere un messaggio di sobria pietà. Ci sono singhiozzi che non si ascoltano. Si vedono e basta, pur nella compostezza del profilo di chi ne è scosso. Si vedono e commuovono, nella letteralità del verbo: associano a un'emozione che sappiamo appartenerci, e che però spesso dimentichiamo fino a disconoscerla.
Carolina, la mamma di Lorenzo, ci ha risvegliato dal diffuso torpore del sentimento. E' come se avesse voluto prendere su di sé il carico di un'umanità distratta e individualista, attenta ai saliscendi della borsa della materialità e non a quelli del cuore. Un'umanità che patisce le conseguenze della stretta finanziaria e non sa più compatire le ricadute dell'allargarsi della sua superficialità.
Pare che ci vogliano pazientemente spiegare, le parole meste e serene di Carolina: guardate che c'è sofferenza e sofferenza. Desolazione e desolazione. Tragedia e tragedia. Guardate che la ricchezza interiore è un tesoro inestimabile, e non esiste povertà transitoria che la possa scalfire, purché si sappia dove andare a coglierla. La ricchezza, non la povertà. E in quale modo usarla. Investirla. Ricavarne un profitto per l'anima.
Questa donna di Sovico (questa straordinaria donna) rimette la sofferenza al posto che le tocca. E c'impone con una ruvida carezza d'avvertire la miseria d'altre e assai meno nobili sofferenze. S'incarica d'una sorta di trasfigurazione del male in bene e in fondo, pur senz'averne l'aria né lo scopo, si adopera nel rispondere all'antica domanda di cui sopra: siamo fatti non per l'uno (il bene) né per l'altro (il male). Siamo fatti per consolarci dell'inadeguatezza a esser fatti così.
© RIPRODUZIONE RISERVATA