L'uccisione accidentale da parte dei militari israeliani di alcune guardie di frontiera egiziane, mentre inseguivano gli assassini con gli elicotteri, ha fatto esplodere tutte in un colpo le tensioni che si stavano accumulando tra i due Paesi dopo la caduta di Mubarak: una folla urlante si è radunata davanti alla missione israeliana al Cairo, i vari candidati alla presidenza hanno promesso ritorsioni e il governo militare di transizione - che ha tutto l'interesse a scaricare su un nemico esterno la persistente rabbia della sua piazza - ha deciso di ritirare l'ambasciatore a Tel Aviv. Mai, da quando Begin e Sadat avevano firmato trentadue anni fa la storica pace su sui si sono retti finora gli equilibri mediorientali si era verificata una crisi di questa ampiezza. Israele si rendeva conto da tempo che, a seguito alla primavera egiziana, i suoi rapporti con il Cairo sarebbero cambiati in peggio. In sei mesi c'erano stati ben cinque attentati contro il gasdotto che attraverso il Sinai porta il metano egiziano nello Stato ebraico, il nuovo Egitto aveva aperto il valico di Rafah con Gaza, stabilendo rapporti di buon vicinato con Hamas, tollerato che nel deserto del Sinai mettesse le radici una filiale di Al Qaeda e perfino cominciato a flirtare con l'arcinemico Iran. Il governo Netanyahu aveva tuttavia tenuto un profilo basso, cercando di difendere lo status quo, fino a quando gli attentati di Eilat non hanno funzionato da detonatore: con la certezza che i terroristi provenivano da Gaza, erano passati attraverso il territorio egiziano ed erano poi entrati in Israele con il loro carico di armi pesanti quasi in vista di un posto di confine, non potevano non reagire. Lo hanno fatto con la solita spietata efficienza, bombardando a più riprese Gaza, eliminando i capi del Comitato popolare di resistenza ritenuto responsabile degli attentati e colpendo vari altri obbiettivi. Altrettanto risoluta è stata la reazione di Hamas, che pur negando la paternità degli attentati, li ha approvati e ha permesso il lancio verso il territorio israeliano di una quindicina di missili; non i soliti Qassam, ma dei Grad capaci di fare assai più male e di raggiungere la città di Ashdod . Ma, soprattutto, un suo portavoce ha dichiarato finita la tregua con Israele in vigore, con alti e bassi, da ormai tre anni.
La vicenda si inserisce, purtroppo, in un clima profondamente deteriorato, e non mancherà di peggiorarlo. Gli israeliani, che ora stanno facendo il possibile per minimizzare le frizioni con l'Egitto, sono ossessionati da una nuova guerra su due fronti, con Hezbollah che attacca da Nord e Hamas da Sud (stavolta con complicità del Cairo, dove il direttorio del movimento fondamentalista si è trasferito da Damasco). I servizi dello Stato ebraico hanno infatti avuto sentore che i due movimenti, alleati dell'Iran e della Siria, starebbero preparando un "diversivo" al fine di distrarre l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale dalla repressione siriana e alleggerire così la pressione, sempre più forte, sugli Assad.
Incombe intanto sulla regione il tentativo dell'Anp di ottenere dalla imminente Assemblea dell'Onu il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini del '67 senza previo accordo con Israele. Netanyahu ha scritto a una quarantina di governi amici, tra cui quello italiano, di cercare di impedire questo sviluppo, tenuto conto che di tale "Stato" sarebbe parte integrante Hamas, tuttora classificata come organizzazione terroristica e ora decisa anche a rompere la tregua. Ma senza un veto americano, i palestinesi otterrebbero senza dubbio la maggioranza. Con conseguenze scarse sul territorio, ma immense sul piano diplomatico.
Livio Caputo
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