Non è strano che sia passata inosservata la notizia diffusa dall'agenzia Nuova Cina secondo la quale il vicepresidente americano Joe Biden, durante un incontro avvenuto a Pechino col suo omologo cinese Xi Jinping, avrebbe dichiarato che gli Usa appoggiano una sola Cina (quella comunista), non sosterranno l'indipendenza di Taiwan e riconoscono che il Tibet è «una inalienabile parte della Cina». Non è strano perché in questo momento gli Stati Uniti d'America stanno giocando una partita a scacchi con la Cina che richiede il silenzio, come nella finale di Wimbledon, oltre che una cospicua dose di piaggeria. Ogni mossa diplomatica azzardata può pregiudicare l'esito del gioco; è in palio la supremazia economica e geopolitica del pianeta.
Per cui, qualora la notizia fosse vera e Obama intendesse veramente fingersi amico della Cina al punto di sacrificare l'etica e la difesa della libertà che ha fatto grandi gli Stati Uniti d'America, verrebbe da chiedersi cosa sta succedendo a Washington. È possibile che il colosso americano si sia accorto di avere i piedi d'argilla e perciò tremi all'idea di crollare sotto i colpi sottili ma efficaci del drago cinese, che sta conquistando (e comprando) il mondo senza clamore? Certo, è possibile. In questo momento a Washington conviene dimenticare i torti subiti dal Tibet e strizzare l'occhio a Pechino in nome della cooperazione e della ragion di stato. Di più, vale la pena fare l'inchino. Premesso che ho nei confronti del popolo americano un sincero sentimento di stima e gratitudine - gli Usa ci hanno salvati da Hitler e dai comunisti e impediscono ai fondamentalisti islamici e ai terroristi in genere di annichilire la nostra società - credo sia giusto esprimere sdegno e preoccupazione per la deriva morale dei governanti a stelle e strisce.
Come può l'America dimenticarsi della tragedia del Tibet? Come può tradire le aspettative e i diritti di chi reclama giustamente d'essere aiutato, non di essere considerato invisibile? Ricordo che il Tibet è stato per secoli un paese unito, libero e indipendente, come attestano tre risoluzioni dell'Onu del 1959, 1961 e 1965 rimaste lettera morta. Nel 1950, la Cina invase il Tibet e decise la sua annessione forzata. Nel 1959, il Dalai Lama fu costretto a fuggire da Lhasa e da allora vive in esilio insieme a moltissimi profughi tibetani, privati di ogni cosa e su tutte di una patria. Da allora, Pechino ha vessato il pacifico popolo tibetano con continue offese, prevaricazioni e orribili atti di barbarie. Si stima che solo fra il 1950 e il 1980, i cinesi abbiano sterminato due milioni di tibetani. Migliaia di tibetani sono in carcere per reati di opinione e le donne subiscono la sterilizzazione e gli aborti forzati. Pechino vuole cancellare l'identità nazionale dei tibetani, la loro storia, la loro religione, la loro lingua, la loro civiltà millenaria.
Di fronte a questo abominio, che la Cina nasconde sotto un muro di silenzio, non solo l'America ma il mondo intero dovrebbe inorridire e fare fronte comune contro l'arroganza di Pechino. Ma invece di sollevarci, noi chiniamo la testa e ci comportiamo come le tre scimmie della favola orientale. Non vediamo, non sentiamo e non parliamo. E se un giorno toccasse anche a noi? Nel 1963, J.F.Kennedy pronunciò la famosa frase «io sono berlinese» per esprimere la vicinanza e l'amicizia degli americani nei confronti degli abitanti di Berlino, divisi dal muro. Allo stesso modo, oggi Obama dovrebbe affermare che «siamo tutti tibetani» anziché compiacere la Cina. Ma i tempi sono cambiati. Purtroppo tira un'aria malsana ed è meglio far finta che il Tibet non esista.
Giuseppe Bresciani
© RIPRODUZIONE RISERVATA