I dati del precisissimo ufficio federale di statistica (è possibile immaginare un ente più autorevole?) ci dicono che in un anno appena sono cresciuti di 4.000 unità e che la gran parte di loro si divide tra il terziario, con 27.110 occupati, e il settore dell'industria, che da solo spinge 23.621 nostri connazionali a varcare, ogni mattina, un confine sempre più sottile.
In altre parole i numeri ci dicono quello che è sotto gli occhi di tutti. E cioè che questa ipotetica unione, favoleggiata per scherzo ma non troppo, è già una realtà solidissima. Del resto, a prescindere dall'esito del dibattito acceso in questi giorni sull'opportunità di creare una macroregione che comprenda il Ticino e le province di Como e Varese, tra noi e "loro" il legame è antichissimo, addirittura atavico, ed è un legame che in altri tempi si concretizzò anche in un genuino sentire comune: negli anni del nostro Risorgimento, per esempio, furono centinaia i ticinesi che scelsero di combattere con gli italiani, qualcuno imbracciando direttamente il moschetto e lasciandoci la pelle, altri limitandosi - per modo di dire - a dare asilo a fuoriusciti perseguitati dalle autorità austriache.
Che la regione Insubrica (denominazione bruttina, in realtà) esista già è allora un dato di fatto. Non se ne parla soltanto all'università della Svizzera italiana, cui due consiglieri comunali luganesi hanno chiesto di approfondire tematiche legate alla improbabile riunificazione; se ne è parlato, prima, alla facoltà dell'Economia dell'Insubria, che nel febbraio di quest'anno ha redatto uno studio su «Struttura economica e cambiamenti nelle province dell'Insubria», a opera di Gioacchino Garofali, studioso ordinario di politica economica regionale. Ne è emersa la fotografia di un tessuto economico eterogeneo, a vocazione prettamente industriale che ha tanti pregi e tante difficoltà, ma che è in ogni caso realmente comune, condiviso. E del resto non ci sono molti altri confini, in Europa, che spartiscano due comunità così vicine l'una all'altra. Forse in Valle d'Aosta, dove il francese è diffusissimo, ovviamente in Alto Adige, ma in entrambi i casi si tratta di terre di contrasti, nelle quali le lingue, in passato, più che unire hanno diviso, spesso affogando dispute nel sangue. Non da noi, non qui, non in questo pacifico angolo d'Europa in cui il dialetto è lo stesso, la cucina è la stessa, una certa propensione al sacrificio, al lavoro sono le stesse, in cui non bastano un finanziere o una guardia di confine a modificare il sapore di una buona polenta.
Certo, potremmo scherzare ore sui nomi improbabili (per loro) di certi comuni del Varesotto o sul rigore un po' ottuso (per noi) di certi poliziotti del Luganese (a proposito: digitate la parola "Frontaliers" su Youtube, troverete una spiritosissima sit-com proprio in tema di frontalieri). Quello che conta è sapere che l'Insubria esiste e che, se anche non dovesse mai avere una propria autonomia amministrativa, già oggi è una chance concreta di sviluppo sociale ed economico per tutti, svizzeri e italiani.
Stefano Ferrari
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