Nelle stesse ore in cui, ad Arcore, Berlusconi e Bossi cercavano la maniera migliore per confezionare una manovra che fosse una medicina miracolosa per la finanza pubblica, ma che allo stesso tempo non scontentasse nessuno, impresa che equivale a correre tenendo i piedi in bocca, a Milano centinaia di sindaci di centri piccoli e meno piccoli gridavano, in modo rigorosamente bipartisan, la loro rabbia - esplosa in minacce surreali, dalla secessione alla costituzione di fantomatici principati - e la loro determinazione a non cedere alle imposizioni del governo. Nell'occasione, tutto il copioso armamentario di polemiche anticentraliste e tutta la retorica della insostituibile funzione degli enti locali sono stati dispiegati e coniugati in tutte le salse, malgrado nei giorni scorsi le ipotesi di accollare a Comuni e Province una parte dei sacrifici che inevitabilmente il Paese dovrà affrontare fossero progressivamente sbiadite, fino ad assumere una consistenza puramente dimostrativa.
Il richiamo alla valenza democratica delle istituzioni più vicine e più controllabili dalla gente ha indubbiamente il suo fascino e, in qualche misura, anche una sua reale consistenza. Ciò non significa peraltro che amministrazioni comunali impegnate a governare realtà di poche centinaia di abitanti, dotate di bilanci risibili e di strumenti operativi più che limitati, abbiano necessariamente altra ragione di continuare ad esistere che non quella, assai prosaica, di fornire tutte insieme una certa, peraltro non elevata, quantità di impiego pubblico. La questione è evidentemente assai spinosa e meriterebbe da parte degli amministratori locali qualcosa di più che una difesa ad oltranza dell'esistente. Quello che invece sembra di cogliere è un atteggiamento quasi da controparte rispetto all'amministrazione centrale, un'estensione della sindrome nimby (not in my backyard, non nel mio cortile) che, dalle sassaiole in Val di Susa alle quotidiane proteste che sorgono anche solo all'annuncio del progetto di una qualsiasi infrastruttura, sembra ormai divenuta un morbo endemico nel Bel Paese. In questo caso il "mio cortile" è il mio orizzonte territoriale, che va preservato al di là di qualsiasi altra considerazione, quasi fosse un'isola in un mare ostile e non un pezzo di una realtà comune a tutti gli italiani.
Non è, questo, un atteggiamento di buon auspicio. Non lo è certamente per gli interessi generali del Paese in un momento di evidente difficoltà, ma non lo è, anche più in generale, rispetto ai problemi che il futuro sembra riservarci. I sindaci, nella fattispecie, hanno assunto le stesse posizioni di un qualsiasi gruppo sociale impegnato anzitutto nella propria autotutela, concorrendo con tutti gli altri a porre i limiti di una manovra che, se anche raggiungerà temporaneamente gli obiettivi di finanza pubblica che si pone, risulterà fatalmente incapace di incidere davvero sui meccanismi strutturali che ci hanno portato nel corso degli anni a questa condizione, senza nel contempo riuscire ad evitare del tutto la trappola fatale dell'effetto recessivo su un'economia già sufficientemente asfittica.
Antonio Marino
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