E pur «senza avere alcun valore deterministico», come prudentemente recita il testo della sentenza, siamo in presenza di considerazioni potenti, almeno sul piano filosofico. Perché ammettere un'inclinazione genetica o neuronale al comportamento aggressivo implica la non libertà dell'agire. Se i neuroni decidono per me, (...) in altri termini, che spazio avrà mai la mia autodeterminazione? Sempre più dibattuta tra gli specialisti - basti pensare al recente «Siamo davvero liberi?» di De Caro, Lavazza, Sartori (Codice Edizioni) - la questione fa un salto di qualità con il "caso Albertani", per così dire, perché applica l'ipotesi teorica alla circostanza concreta. Ad una lettura affrettata, si potrebbe pensare che una corte di giustizia abbia dato il colpo di grazia alla già fragile ossatura del libero arbitrio. Ne sapeva qualcosa Adriano Bausola, filosofo dell'Università Cattolica (1931-2000), che nel suo libro più famoso sul tema («Libertà e responsabilità») inanellava argomenti a favore e contro l'autonomia decisionale, per giungere a un sostanziale equilibrio. Ma si può guardare alla sentenza anche da un altro punto di vista, di più ampio respiro antropologico. I periti mettono in evidenza la complessità dei fattori che interagiscono con la decisione; soprattutto portano la filosofia oltre il piano (per la verità da tempo consunto) cartesiano del soggetto come un Io separato dal suo organismo.
Che le nostre molecole partecipino a inclinarci - in qualche modo - ad agire, dà ragione al fatto che l'individuo è persona, un'unità complessa di sentimento, volontà, ragione. Gli studi più recenti, in ambito fenomenologico - dalla teoria del sentire formulata da Roberta De Monticelli - o nel dominio delle emozioni - si pensi agli scritti di Martha Nussbaum, portano alla luce il ruolo dell'individuo "tutto intero" nell'esercizio della volontà. Per altro, il "caso Albertani" induce la filosofia ad interrogarsi proprio sulla complessità del processo deliberativo: se non si vuole soggiacere al determinismo (negato dagli stessi giudici, come s'è visto), si deve pensare a una dinamica del volere ben più sofisticata di quanto non si immagini.
Per progredire nel confronto, mai come stavolta basta guardare indietro. Rileggendo magari Tommaso d'Aquino (XIII secolo), che enunciava ben dodici fasi per giungere alla performance dell'atto umano. Beh, forse sono parecchie. Ma resta forte l'idea di base dell'Aquinate, cioè che la volontà non sia "soltanto" una questione di cervello, come vorrebbe una lettura riduttiva delle neuroscienze, inadatte - ad esempio - a dar conto dell'intenzione, cioè di come si forma in noi l'ordine dell'azione, secondo la lezione (ancora ignota anche a tanti filosofi italiani) di Elisabeth Anscombe.
Per concludere: lungi dal ridurre i margini del libero arbitrio, come parrebbe, le sinapsi cerebrali in 3D possono aiutare la filosofia morale a progredire. Tommaso d'Aquino, con il suo slancio realista, ne avrebbe fatto tesoro. C'è da scommetterci.
Vera Fisogni
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