Peggio della Camusso, con i toni di un Landini alla guerra con Marchionne. Eppure è la presidente degli industriali italiani, Emma Marcegaglia. Ma le sue parole non sono solo cariche di rabbia. Purtroppo per noi, sono piene di preoccupazione, di timori. E anche di un bel po' di delusione per un esecutivo sul quale, per Dna e storie personali, una larga fetta del mondo produttivo aveva investito e creduto.
Ieri invece il re ora è nudo di fronte non solo all'Italia, ma al mondo. Una delle famigerate agenzie di rating, Standard & Poor's ha declassato il nostro Paese da «A+ » ad «A» motivandolo - e qui sta l'aspetto più grave - con la fragilità della coalizione di governo che non riesce a dare prospettive di crescita e avviare le riforme necessarie. Toni duri, ultimativi, che hanno fatto infuriare Palazzo Chigi. Ma l'agenzia ha reagito con calma, ribadendo la sua indipendenza e i suoi criteri accettati comunque dai mercati di tutto il mondo. Non solo, perché S&P ha rincarato avvertendo che un altro taglio di rating, ovvero del giudizio di affidabilità di un Paese, è alle viste entro un anno.
Ma la giornata nera non è finita qui, perché anche il Fondo monetario ha messo in dubbio che l'Italia sia in grado di arrivare al pareggio di bilancio entro il 2013, secondo quanto promesso all'Europa e alla base delle quattro manovre costruite, smontate e rimontate in questa estate bollente.
Da Roma, al di là delle complicate acrobazie dialettiche, la risposta più concreta non ha fatto che confermare le premesse di S&P: ieri, in poche ore, la maggioranza è stata battuta quattro volte alla Camera.
Tanti segnali, opinioni che si muovono sui terminali dei traider da mesi e che, di fatto, con gli attacchi concentrici hanno solo anticipato il voto di ieri. Di questo si preoccupa la Marcegaglia e con lei il mondo produttivo e del lavoro, tutti i cittadini. Hanno paura le imprese a cui ora, grazie al declassamento, costerà ancora di più chiedere soldi in prestito alle banche e queste ultime li daranno con il contagocce dovendo pensare ai loro bilanci dissanguati. Hanno paura perché la manovra per oltre due terzi agisce sulle entrate - quindi tasse - e per meno di un terzo sui tagli, perché il pacchetto crescita di cui parla Tremonti ritarda e rilancia ancora il Ponte sullo Stretto (anche se mancano quasi 5 miliardi, secondo gli ultimi conti) fra le infrastrutture mentre centinaia, migliaia di piccoli cantieri non decollano.
Hanno paura le imprese perché le liberalizzazioni sono al palo, invece di tagliare gli ordini professionali si discute di crearne di nuovi, perché i loro dipendenti chiedono sempre di più l'anticipo del Tfr e consumano sempre meno, perché non possono assumere senza sicurezze e dovendo solo offrire in cambio una patetica e nel resto d'Europa bocciata precarietà. Hanno paura perché sanno che la manovra, la quinta, più dura deve ancora arrivare e perché la delega fiscale porterà via altri soldi dalle tasche esangui.
Non è S&P che spaventa, è che nessuno oggi sembra in grado di mostrarle che l'Italia è ancora un Paese serio, che può farcela a vincere la crisi. L'Italia sì, e chi la governa?
Umberto Montin
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