Amanda, le inchieste non sono come Csi

La Giustizia non è un concetto astratto e impalpabile. Ma un insieme di regole e garanzie scritte perché non ne venga tradita non già la filosofia, ma la sua stessa definizione. La sentenza con la quale i giudici di Perugia hanno assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il sistema giudiziario italiano, con tutti i suoi limiti e le sue umane imperfezioni, si fonda ancora su pilastri normativi che reggono a dispetto dei reiterati attacchi, spesso di sapore politico, degli ultimi anni. Non interessa, qui, analizzare gli elementi e i dubbi che hanno portato all'assoluzione degli imputati considerati, in primo grado, due assassini. Quanto piuttosto evidenziare, come ha commentato l'avvocato Carlo Dalla Vedova, legale di Amanda, che una sentenza come quella della corte d'Appello di Perugia è «un trionfo della giustizia». Il trionfo di una giustizia che sa correggere se stessa. Che non si siede per calcolo o interesse sulle sue posizioni. Ma che si sa mettere in discussione, quando ombre e dubbi non si sono dissolti.
Tutto questo è il frutto non già del caso o di un'improvvisa illuminazione di singoli magistrati, ma è la diretta conseguenza di un sistema di regole che fanno del processo italiano uno dei più garantisti e giusto al mondo. Quegli Stati Uniti che non hanno lesinato critiche anche feroci alla giustizia italiana, per aver tenuto in carcere per quattro anni la "figlia" di Seattle, non sarebbero probabilmente stati capaci di tornare sui propri passi come hanno fatto i giudici di Perugia. Quanti innocenti sono usciti con gli occhi chiusi e il cuore svuotato di vita, ancor prima che di speranza, dalle camere a gas. Senza che il sistema giudiziario americano trovasse un modo per ridiscutere il caso e riaprire il processo.
Nella serata di quella che i difensori degli imputati hanno definito «una vittoria della giustizia», non è però possibile sorvolare sul fatto che, per quattro anni, due persone giudicate ieri innocenti sono state private della libertà. Al di là delle critiche piovute su un'inchiesta che, evidentemente, è uscita demolita dalla camera di consiglio dei giudici di secondo grado, sarebbe forse il caso di interrogarsi su quella sindrome da Csi che ha irrimediabilmente contagiato le inchieste. Se è vero, infatti, che la prova scientifica può essere determinante per risolvere un mistero, è altrettanto vero che non le si può delegare il compito esclusivo di tracciare il confine tra innocenza e colpevolezza. Il balletto di consulenze e perizie, quello sì non un bello spettacolo per la macchina inquirente italiana, ha messo drammaticamente a nudo la necessità di ripensare con freddezza e grande cautela a come interpretare le tracce scientifiche ritrovate su una scena del delitto.
Ma anche su questo fronte, ieri, il complesso sistema di codici e norme che regge la giustizia italiana ha dato un segnale di garanzia. Questo non significa che di errori non ne sono mai stati e non ne saranno mai commessi. Ma, da ieri, siamo autorizzati a sentirci un po' più tutelati. L'America delle camere a gas, la stessa che ha intinto nel veleno le penne dei commentatori giunti a Perugia, è lontana. E, almeno sul fronte della giustizia, è una buona notizia.

Paolo Moretti

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