Al netto di questa ambiguità, si tratta di introiti stimati dalla dismissione di parte dell'immenso patrimonio immobiliare dello Stato, ma parte piccolissima. Se l'intera "manomorta pubblica da cui creare ricchezza" vale per il Tesoro 1815 miliardi, solo il patrimonio immobiliare "alienabile" è stimato attorno ai 400 miliardi. Se ne privatizza, quindi, meno del 10%. "Too little too late", troppo poco troppo tardi?
C'è il rischio che il resto del mondo pensi precisamente questo. Stupisce come il governo continui a considerare le privatizzazioni una sorta di malattia da circoscrivere il più possibile. Eppure, giustamente da più parti si è sottolineato come sia assolutamente necessario riportare il debito pubblico a valori più ragionevoli. Abbassare l'asticella significa pagare meno di spesa per interessi, quindi anche una riduzione di 100-200 miliardi avrebbe ripercussioni positive.
Privatizzare è lo strumento adeguato per perseguire questo obiettivo. Si tratta della classica fava con cui si possono prendere due piccioni. Da una parte, "fare cassa" per lo Stato. Dall'altra, far sì che in settori cruciali della nostra economia (pensate anche soltanto alle poste e alle ferrovie) arrivi l'apporto di imprenditori privati, che siano in grado di fare meglio di quanto ha fatto sino ad oggi il pubblico - per la disperazione di noi cittadini-consumatori.
Per poter varare un piano di privatizzazioni credibile e di successo, tuttavia, non si può partire dal punto di vista del governo: che esclude a priori la cessione di quote delle imprese ancora statali.
Una voce autorevole e amica del governo come quella di Giuliano Ferrara da mesi sprona l'esecutivo a "vendere vendere vendere". Ma nella sua "Radio Londra" ha escluso egli stesso la cessione di Poste, Finmeccanica, o delle quote di Eni o Enel.
Anche il "manifesto" presentato da Confindustria, Abi, Ania, Cooperative e Rete Imprese Italia si parla di dismissioni sostanzialmente soltanto rispetto alle utilities locali. Non c'è cenno alla possibilità di reperire risorse mettendo sul mercato le quote delle partecipate. La timidezza di Confindustria è comprensibile, perché si tratta di "soci" pesanti della stessa.
Si dirà: è rischioso privatizzare oggi perché i valori di mercato sono troppo bassi. E' un modo di ragionare seducente ma sbagliato. Primo, perché "privatizzare" ora vuol dire in realtà avviare un processo di mesi, dal momento che lo Stato deve munirsi di strumenti i più trasparenti ed opportuni per collocare quelle imprese. Secondo, perché se i valori dei mercato fossero alti, non si privatizzerebbe esattamente per lo stesso motivo. Ogni scusa è buona: le nostre aziende valgono troppo, le nostre aziende valgono troppo poco.
Se pensiamo al Paese, però, più privato e più concorrenza farebbero bene a tutti: agli ex monopolisti per recuperare efficienza, ai consumatori per avere servizi migliori, agli imprenditori per potere cimentarsi in nuovi settori. A rimetterci sarebbe solo la politica, che dovrebbe rinunciare al potere di nominare gli amici degli amici.
Alberto Mingardi
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