Come quello portato alla luce dal Nobel, che si esprime in una domanda: le donne sono più brave a costruire la pace? A guardare il numero crescente di delitti di cui si rendono protagoniste le signore, dalla criminalità comune al terrorismo, verrebbe da rispondere «no». Chi ha visto al cinema come Kate Winslet e Jodie Foster si trasformino, da equilibrate dame "bon chic bon genre" in erinni, nell'ansiogeno "Carnage" di Roman Polanski, avrà di che ridire. Quando al panorama mediatico casalingo, figure come Daniela Santanché sembrano, in tante occasioni, il miglior testimonial del celebre frammento di Eraclito: «pòlemos di tutte le cose è padre, di tutte le cose è re...».
La pace, però, non è soltanto l'antitesi del conflitto, esito implicito nella condizione umana, al maschile e al femminile. Nel senso profondo che alla parola i latini avevano assegnato - da contadini quali erano in origine - pace proviene dal verbo "pango" e sta ad indicare l'azione di mettere dei paletti, per distinguere il mio campo da quello del mio rivale, così da non suscitare più possibili tensioni. Ciascuna delle signore vincitrici del Nobel ha fatto qualcosa di simile: Ellen contro la corruzione, Tawakkol ha portato argomenti non violenti contro la dittatura nello Yemen, Leyman ha esortato le donne liberiane a dire «no» al sesso, se questo significa evitare di mettere al mondo bambini soldato. La pace è un punto fermo, la cui forza sta nei patti (guarda caso, "pactum" è il participio passato di "pango"), a cui va riconosciuta una validità condivisa.
Non sante, né martiri, piuttosto costruttrici consapevoli di un presente migliore, per una speranza possibile, le vincitrici del Nobel rilanciano anche un quesito considerato "tabù" dal dibattito femminista contemporaneo: parlare di inclinazione alla pace, implica in qualche modo pensare a una "natura" femminile più orientata al bene (sociale)? È così? Anche Michela Murgia, scrittrice e pensatrice di penetrante intelligenza, autrice del pamphlet "Ave Mary", non perde occasione per contestare questo punto di vista.
Certo, se pensiamo alla natura come a qualcosa con cui nasciamo, una specie di Dna o destino, diventa difficile anche accettare l'idea di un "genio" femminile, tanto caro a Papa Wojtyla. Ma se guardiamo alla natura come a un progetto, non soltanto ci rendiamo conto di quanto spazio si apra alla libertà. Riusciamo persino ad ammettere che le donne - per cultura o tradizione più orientate al concreto, alla cura, alla gestione dell'economia familiare - abbiano mediamente più a cuore la stabilità, il rispetto dei patti, l'agire comunicativo. In una parola: la pace.
Se questo era il messaggio del Nobel di quest'anno non saprei dire. Di certo c'è molto su cui meditare. Quanta energia politica abbiano le donne italiane lo abbiamo visto il 13 febbraio e lo ha mostrato la caparbietà di Emma Marcegaglia, con lo sforzo di una concretezza propositiva anti-crisi. Come dire: quando si muovono le donne, davvero possono cambiare (in meglio) le cose. Basta crederci. Con Ellen, Tawakkol e Leymah si può fare.
Vera Fisogni
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