C'è un termine che negli ultimi giorni accompagna con frequenza l'insediamento del governo Monti: sobrietà. Fin dalle prime mosse della nuova squadra sembra che il Parlamento sia entrato in un'altra dimensione, quasi sotto ipnosi, senza distinzione di parti. La politica, ancora col fiatone per gli scorsi litigi, si predispone ammutolita a guardare l'operato di professori a modo chiamati a soccorrere il Paese.
Alcuni cittadini saranno lieti che il confronto possa passare dai diti medi alzati a una pianificazione composta; altri nutriranno riserve sui tecnici, giudicati forse più tecnocrati; altri ancora sospetteranno l'influsso di poteri forti oppure si lamenteranno per una forzatura esercitata sulla democrazia e studiata a tavolino da tempo.
Potrebbero avere tutti una parte di ragione, ma il succo del discorso è un altro: la politica ha fallito e il mercato globale - una specie di elettorato parallelo - l'ha impietosamente punita. Il degrado culturale ch'essa ha provocato negli anni, insieme all'incompetenza e all'incapacità di trovare intese hanno condotto il Paese, instabile e indebitato, al rischio estremo di bancarotta, da tempo preannunciato e sistematicamente sottovalutato. Mentre la nave Italia procedeva verso un gorgo immane, del tipo di quello descritto da Egar Allan Poe in uno dei suoi inquietanti racconti, i timonieri, che di nautica capivano poco, minimizzavano e si scazzottavano sul ponte. E, ancora oggi, non manca chi pensa che l'Italia non sia messa così male o che, alla peggio, un default controllato possa essere indolore.
La sobrietà del governo Monti non è una questione di modi eleganti, rispecchia soprattutto la risposta alla necessità impellente di lavorare con la “ratio”, lontano dall'emotività, dai populismi e dai protagonismi. Il mondo è diventato molto più complesso nel volgere di pochi anni, la finanza agisce in esso su opportunità e minacce prima inesistenti, influendo sulla vita di ciascuno. I governi nazionali non sono stati al passo con questa evoluzione; una condizione critica quando appartengono a sistemi soprannazionali, come nel caso dell'Europa. Per l'Italia il ritardo è particolarmente grave all'interno dell'Unione.
Ecco che, dopo tante urla, è venuto il momento di chi padroneggia la materia che conta. È quasi scontato che le figure in oggetto appartengano a quei poteri forti di cui sopra; i capitani che sanno navigare sulle acque economico-finanziarie non si sono formati in una torre d'avorio. C'è un rischio di conflitto d'interesse, certo, ma va comparato col pericolo delle correnti del gorgo. Inoltre, in una nazione moderna e civile tale rischio si dovrebbe poter fronteggiare.
Le borse non hanno ancora cambiato idea. A noi non resta che sperare che lo facciano, a seguito dei benefici effetti che questa leadership transitoria potrebbe sortire; leadership tecnica, ma che inevitabilmente prenderà decisioni politiche. Non sarà facile ridurre il peso del debito negli anni e favorire la crescita in osservanza a qualche criterio di equità sociale che venga accettato senza disordini.
Nel frattempo i politici di professione dovrebbero farsi un esame di coscienza, prepararsi al dopo, dato che la logica democratica vuole che un giorno tornino al timone. Se non recupereranno competenze e responsabilità l'Italia continuerà a trascinarsi sotto dettami tecnici, comandata dai padroni del vento, i creditori (stranieri); oppure avremo politici che, per cautelarsi, diranno che è tutta colpa dei complotti internazionali. La politica deve tornare ad avere il suo primato fisiologico, ma per farlo non basta che si rifaccia il trucco: dovrà studiare di più e urlare di meno.
Roberto Weitnauer
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