Se non basta dire
che tutto va male

  Nei continui annunci dell'economia, della finanza, della politica e perfino dagli sguardi aggrottati degli intellettuali, abbiamo colto una sorta di comune denominatore, un sottile eppure percepibile motivo ricorrente, un labile ma insistente tema di fondo: le cose, a quanto ci è dato capire, non vanno bene.
Non più tardi di ieri, Corrado Passera ha affermato davanti all'assemblea di Confcommercio che «l'Italia rischia la recessione», cosa che, detta da uno che fa il ministro allo Sviluppo, promette maluccio. Non molto più incoraggiante è risuonato l'appello del presidente Napolitano il quale, con tutta l'autorevolezza del ruolo, ha fatto sapere che «per uscire da questa grave crisi occorre un grande sforzo politico, morale e sociale». Sarà perché, invecchiando, si diventa cinici ma, in giro, non vediamo molte energie disposte a produrre sforzi eccezionali: non nella politica, non nella società Quanto alla moralità, si può solo sperare in un repentino risveglio delle coscienze, una sorta di elettroshock etico.
Non bastasse, sempre ieri il presidente della Bce, la banca europea, ha richiamato l'attenzione dell'intero continente su un fatto inquietante: «Le banche sono stressate dal debito». Non so voi, ma l'idea di una banca stressata non ci tranquillizza affatto. Vien da pensare a un correntista che si avvicina allo sportello: «Come va, oggi?» «Un po' meglio, grazie - risponde l'impiegato -, ma ieri a momenti al cash flow gli veniva una crisi isterica».
Forse nel tentativo di chiudere su una nota ottimistica, Draghi ha aggiunto che «la Bce è l'ultimo baluardo del'euro». Anche qui, non proprio un'espressione felicissima: sembra di vedere l'attaccante della squadra avversaria lanciato a rete e il solo portiere che, disperato, cerca di negargli il gol.
La morale è che a noi, più o meno intelligenti, alcuni poco informati e altri informatissimi - ma comunque in balia di meccanismi, decisioni e catastrofi ben superiori alle nostre capacità e possibilità di controllo - dopo tutti questi messaggi catastrofici, questi annunci sussiegosi, queste cassandre in giacca e cravatta, non resta in tasca un briciolo di speranza e che, lungi dall'essere in grado di produrre il "grande sforzo" auspicato dal presidente della Repubblica, non riusciremmo a sollevare un bond greco o a spostare di un metro un titolo portoghese. Questo sia detto non per nostalgia del fasullo ottimismo spacciato dal governo precedente o per auspicare l'applicazione di un benevolente filtro alla comunicazione, quanto per far intendere che, una volta chiarito il quadro drammatico nel cui ci troviamo a operare, stabilito che ci aspettano sacrifici e tasse e che, ormai, in pensione ci andremo solo dopo qualche anno dal nostro medesimo decesso, bisognerà pure inventarsi qualcosa, un'energia, una spinta per mandare avanti, rinnovandolo, questo modello di società. Difficile dire se dovrà essere soltanto un rinnovamento economico e finanziario (per ottenere il quale, comunque, sarà improbabile procedere solo a forza di tagli e contrazioni), o piuttosto dovrà trattarsi di una rigenerazione politica, sociale e, in ultima analisi, culturale. Quello che ci vorrebbe, insomma, non è l'ottimismo della menzogna consolatrice: piuttosto, quello che deriva dalla convinzione, finalmente salda, che i nostri valori di base sono giusti, la nostra coscienza onesta e soprattutto che, quando bisogna ricostruire come oggi siamo chiamati a fare, tanto vale cogliere l'occasione per migliorarci fino in fondo.
Mario Schiani

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