Parafrasando uno storico titolo del Daily Telegraph, a Londra ora qualcuno potrebbe dire che dopo il vertice di Bruxelles, il Continente - inteso come l'Europa a 26 - è isolato.
Da questa parte della Manica, però, la fotografia reale che emerge è diversa: lo strappo britannico, con il "no" di David Cameron alla riforma dei Trattati europei secondo i dettami del due "Merkozy", pesa e stavolta ad essere isolata è proprio la Gran Bretagna.
Che si tratti di una "vendetta" franco-tedesca, o della paura di veder fallire l'euro per volontà di una capitale che alla moneta unica non ha mai voluto aderire (storico e di ben diverso carisma e peso fu il "no" della Thatcher) o ancora la consapevolezza che la due giorni nella capitale belga era veramente «l'ultima chance» per l'Europa unita, poco importa: sull'orlo dell'abisso, di fronte alla minaccia britannica di porre il veto, la Merkel, Sarkozy, Monti e gli altri hanno avuto il coraggio e la forza di non piegarsi. Meglio cambiare, anche a costo di lasciare per strada un partner di non poco peso come Londra.
Oltre Manica non tutti sono convinti che la difesa degli interessi britannici sia passata attraverso quel "no" a un dirigismo economico della Ue. È vero, la sterlina è rimasta fuori (finora) dalla tempesta monetaria, ma nel 2008-2009 anche la Gran Bretagna è finita risucchiata nel vortice della Grande Recessione. E le sue banche non sono state meno colpite di quelle del Continente.
Londra ha difeso la sua City, terrorizzata dalla Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, ma restando dentro la Ue e integrata a fondo con i mercati degli altri 26 Paesi, con il suo isolamento adesso ha molto da temere.
Da questo punto di vista, dunque, il vertice non è stato un fallimento. Anzi, considerate le premesse sul possibile crollo dell'euro, l'intesa fra i 17, poi lievitati a 26 (con qualche riserva e alcuni mugugni) è stato un successo. Tedesco innanzitutto: Angela Merkel è riuscita a imporre la sua linea - vincoli ai bilanci, sanzioni per chi non ottempera, rafforzamento del fondo salva-Stati ma senza eurobond, 500 al fondo Esm e altri 200 veicolati verso il Fmi -, Nicolas Sarkozy ha condiviso sperando che le agenzie di rating non gli taglino la sua tripla A, Mario Monti ha incassato i complimenti per la manovra e, in fondo, con la sua formazione eurocentrica, ha dato il suo pieno e convinto sostegno alle tesi di Berlino e Parigi. In questo senso l'Italia può rallegrarsi: alla testa ha un premier molto "tedesco" e alla Bce è rappresentata da un pretoriano come Mario Draghi, il quale alla dottrina della Deutsche Bank ha sempre guardato con estremo favore.
Non mancano le ombre però, oltre allo strappo inglese: la riscrittura dei trattati va a marzo 2012, arriveranno le sanzioni per gli Stati spreconi, ma il fondo salva-Stati non è stato rafforzato secondo quanto molti economisti auspicavano (fino a 2 mila o anche 3 mila miliardi). Quindi, Grecia a parte che ormai tutti - dall'ultima relazione della troika della Ue a uno studio Ubs - danno per fallita, l'Italia se ne torna a casa senza eurobond e senza una rete di protezione adeguata. Il che, nonostante i "tedeschi" Monti e Draghi, il consapevole ottimismo di entrambi sui destini del nostro Paese, la credibilità ritrovata e lo spread, lascia un po' d'inquietudine sul nostro futuro prossimo. Alla luce soprattutto delle lacrime che, grazie alla manovra, dovremo spargere e del sangue che sputeremo.
Umberto Montin
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