Qualsiasi classifica di questo tipo, fatta di schede sintetiche per 184 Paesi, è inevitabilmente imperfetta e lascia spazio a contestazioni. Ma la fotografia “panoramica” è interessante e va presa in considerazione. Nell'ultimo anno, secondo la Heritage Foundation, la libertà economica ha scontato un assestamento in tutti i Paesi occidentali: per effetto della crisi finanziaria, sono state riesumate politiche keynesiane e si è scelto di scommettere sulla spesa pubblica per rilanciare lo sviluppo. Lo Stato non possiede risorse proprie: ha solo quelle che sottrae ai contribuenti. Pertanto, qualsiasi ampliamento degli interventi pubblici coincide necessariamente con una contrazione dell'economia privata. Altre aree del mondo, però, continuano a scegliere la strada della libertà economica: per aprire spazi all'imprenditorialità e attrarre investimenti stranieri. È il caso di molti Paesi africani. Per la prima volta un Paese africano, Mauritius, è fra le dieci economie più libere al mondo. E i primi dieci Paesi africani per libertà economica (Mauritius, Botswana, Rwanda, Capo Verde, Sud Africa, Madagascar, Namibia, Uganda, Ghana, Burkina Faso) hanno tutti un punteggio complessivo superiore a quello dell'Italia.
Come sono valutati i diversi Paesi? Attraverso una serie di indicatori che riguardano: certezza del diritto, peso dello Stato (spesa pubblica e pressione fiscale), efficienza della regolamentazione, e apertura allo scambio con l'estero. In quest'ultimo campo, l'Italia beneficia dell'appartenenza al club europeo. In altri, purtroppo, non riusciamo a superare antichi problemi.
Per spesa pubblica, l'Italia nella classifica risulta 164ª. Per pressione fiscale, 169ª. Significa che ci sono 163 Paesi nel mondo dove si spende meno e meglio che da noi, e 168 nei quali le tasse sono inferiori e, sovente, più “facili” da pagare.
In questi giorni si parla molto di articolo 18 e delle rigidità del mercato del lavoro: la Heritage Foundation, in quest'ambito, ci assegna un poco rassicurante 153° posto. È cosa nota, l'obbligo di reintegro in caso di licenziamento è non da oggi identificato come un freno alla competitività delle nostre imprese.
Eppure, è bastato che nella bozza di decreto sulle “liberalizzazioni” fosse inserita una norma peraltro tutto fuorché “estremista” (l'innalzamento della soglia a 50 dipendenti nel caso della fusione fra due imprese che ne hanno meno di 15) per suscitare reazioni agguerrite da parte di sindacati e uomini politici.
Le liberalizzazioni su cui sta lavorando il governo sono un banco di prova importante per capire se, complice una situazione “eccezionale” dal punto di vista politico, è possibile togliere il gesso all'economia italiana. L'esito non è scontato, gli interessi che spingono in direzione opposta sono fortissimi. In Italia, siamo tutti “liberalizzatori”: i professionisti gradiscono la liberalizzazione dei tassisti, i tassisti quella dei benzinai, i benzinai quella del commercio, eccetera. Ci vorrà tutta l'autorevolezza di Mario Monti per superare questi veti incrociati. Ma ci vorrebbe anche qualcosa di più.
Bisognerebbe infatti che il Paese, tutt'intero, comprendesse come questa è un'opportunità. Le liberalizzazioni non vanno fatte “contro”
qualcuno: per punire una categoria che sin qui ha goduto di privilegi tanto più sgradevoli quanto più l'economia arranca. Vanno fatte per costruire un'economia più dinamica, più aperta, che possa ritrovare la via della crescita. Proprio per questo motivo, a provvedimenti “di settore” bisogna che si accompagnino robuste semplificazioni.
Alberto Mingardi
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