Kipling l'aveva risolta in modo brillante - «Un italiano? Un bel tipo. Due italiani? Stanno già litigando. Tre italiani? Tre partiti politici…» - ma in fondo questo humour crudelissimo è roba da inglesi. Non fa per noi. Molto più innato dividersi tra le due maschere della nostra parte in commedia. Da un lato, il tipico italiano medio-basso (Schettino), rivisitazione grottesca del cialtrone, del familista amorale, del laido, dell'arruffone, dell'incapace e, soprattutto, del vigliacco, peccato capitale per la cultura anglosassone e, invece, cifra stilistica di un paese che da duemila anni si fa invadere dal primo che passa, tanto poi si trova sempre il modo di mettersi d'accordo col nuovo padrone e scaricare tutte le colpe sullo Stato che non fa niente per noi. Dall'altra, invece, l'ammirazione impotente e davvero emozionata quando ci si presenta davanti agli occhi la prova (De Falco) che pure qui può esistere etica, competenza e indignazione e senso civico e algida, spietata intolleranza nei confronti di quella macchietta di italiano che ci infanga tutti quanti e al quale vorremmo tanto ribellarci: ma noi non siamo così, noi non parliamo così! E questo è quanto. Questa e solo questa sembra essere la nostra alternativa di vita, acutamente analizzata alcuni giorni fa su questo giornale dall'ottimo Mario Schiani: il lurido Schettino e la sua melliflua contiguità ai meandri più riposti della nostra piccineria oppure l'eroico De Falco e la sua inesausta aspirazione a essere meglio, molto meglio di quello che si è. Così. Sempre così. Otto settembre o Venticinque aprile, Alberto Sordi o Anna Magnani, Don Abbondio o Fra Cristoforo, il farmacista Homais di Madame Bovary o Julian Sorel del Rosso e il Nero… Ma non funziona in questo modo. Non è questa la vera dimensione dell'Italia, che va a schiantarsi scioccamente contro le rocce ma che sarebbe anche capacissima di non tradire la rotta prefissata e veleggiare al largo. Il suo vero profilo, la sua identità di lunga durata è un'altra: quella di stare comunque a galla, ma prigioniera nella palude delle sue contraddizioni.
Questi ultimi mesi di naufragio della politica sono stati davvero istruttivi, non tanto sulle condizioni dei partiti e della classe dirigente, sui quali non è il caso di infierire, ma su ciò che è davvero questo paese. Ipnotizzati dalla svolta (o dal colpo di mano?) orchestrata da Napolitano e incarnata dal governo Monti ci siamo immaginati che tutto fosse veramente diverso e che la navicella italiana non fosse più destinata a inabissarsi nei gorghi dello spread. E così è stato, per fortuna, visto che il tasso di competenza e presentabilità (nonostante le figuracce alla Malinconico) dell'attuale esecutivo è addirittura stridente con quello a tratti pagliaccesco e vergognoso di chi l'ha preceduto. Ma non illudiamoci, la linea non cambia. E le diverse manovre di queste settimane (comprese le timide liberalizzazioni di venerdì scorso) non spostano il punto. Nell'era della seconda Repubblica, i balcanizzati governi di centrosinistra, i lussureggianti governi di centrodestra e i sobrissimi governi tecnici non hanno fatto altro che continuare a tessere la stessa tela mortifera: spese e tasse, tasse e spese, spese e tasse. Ma non faceva così anche il pentapartito?
Tutto il resto è propaganda da talk show, piazzate dei taxisti e anatemi degli avvocati compresi. La linea storica, culturale di tutti i premier è sempre quella: Stato, Keynes, fisco. Spesa, debito, privilegi. Niente crescita, niente merito, tutta cooptazione di casta. E da lì non si esce, perché non si può uscire, perché quello è il nostro costume, incardinato nei secoli dei secoli sul non si tocca nulla e sul potere onnivoro delle corporazioni, sui ricatti delle lobby, sull'inamovibilità di élite che mangiano e non circolano, sulla delega in toto al Moloch prefettocratico, sulla concertazione a prescindere che - inesorabilmente - genera mostri: dirigenti che fanno i sindacalisti, sindacalisti che pretendono di dare la linea alle aziende, difesa dei garantiti, abbandono di chi garantito non è e mai lo sarà. Insomma, la solita Italietta.
Ora che la tempesta sembra passata (come vedete, chi scrive voleva scappare dalle metafore, ma poi ha finito per sfornarne un'altra) meglio dipanare le nebbie dal nuovo Titanic: la nostra Concordia non è in mano né agli Schettino né ai De Falco. Certo, con Monti ci sentiamo un po' più al sicuro - anche perché almeno sta in plancia di comando e non al ristorante a suonare il piano - ma pure lui la nostra nave non la fa uscire all'aperto, dove c'è il rischio di sfracellarsi ma anche di scoprire nuove terre. Preferisce lasciarla lì, ben nascosta nella rada, ferma, immobile. Stagnante.
E il dramma è che, in fondo, è proprio quella che vogliamo pure noi.
Diego Minonzio
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