Com'è noto, il problema dell'articolo 18 sta nell'obbligo di reintegro del lavoratore licenziato senza "giusta causa". È una norma che solo noi abbiamo (mentre ovunque in Europa ci sono compensazioni monetarie), che rende, di fatto, illicenziabili i lavoratori delle imprese sopra la fatidica soglia dei 15 dipendenti. La Confindustria di Antonio D'Amato e il secondo governo Berlusconi promossero un tentativo di emendamento - senza riuscire a portarlo a termine, nonostante l'assassinio di Marco Biagi da parte delle Brigate Rosse. È ancora importante mettere mano all'articolo 18, e se si perché? Si, per due ragioni. Vi è una ragione economica: un mercato del lavoro più rigido "in uscita" lo è, necessariamente, anche "in entrata". Quando un contratto a tempo indeterminato è più indissolubile di un matrimonio, il disincentivo ad assumere a tempo indeterminato è molto forte. Ciò ha effetti perversi: non solo la proliferazione dei contratti a tempo determinato (che ingenerano senso di "precarietà") ma anche la scelta, per molti imprenditori consapevole, di non crescere oltre il tetto dei 15 dipendenti. I governi italiani da anni promuovono politiche volte a superare il biasimato "nanismo" delle imprese italiane, a stimolare aggregazioni e fusioni. Senza sfiorare l'articolo 18, queste restano - come ampiamente prevedibile - inefficaci. L'altra ragione è di carattere squisitamente politico. Da vent'anni ci confrontiamo con la necessità di un mercato del lavoro più aperto e più moderno. Il centro-sinistra ha varato i pacchetti Treu, il centro-destra la legge Biagi. Sull'articolo 18, le forze politiche si sono sempre scoperte impotenti innanzi ai sindacati. Che lo difendono strenuamente con un tabù intoccabile, perché essi rappresentano coloro che godono di tutele piene, e non invece quanti stanno entrando nel mondo del lavoro. Più si va avanti nel tempo e più la situazione peggiorerà: alzandosi l'età media degli elettori, i "giovani" rischiano di scoprirsi una minoranza senza voce.
Un autore di best seller, ministro dell'economia per qualche anno negli scorsi venti, aveva a un certo punto scoperto una certa nostalgia per il "posto fisso". Monti, dissotterrando la riforma dell'articolo 18, ha invece impostato la questione nei termini più corretti. A meritare tutela è il singolo lavoratore nei momenti di difficoltà: non il "posto" di lavoro. Quando si parla di articolo 18, si finisce sempre per contrabbandare una lettura del ruolo imprenditoriale davvero paradossale. Chi dà lavoro, e investe sulla formazione di competenze e professionalità in capo ai suoi collaboratori, non sognerebbe che una buona occasione per disfarsi di quanti lavorano con lui. Esistono i sadici, ma è improbabile che facciano tutti gli imprenditori. Così come è improbabile che tutti coloro che vogliono un lavoro dipendente cerchino solo un riparo sicuro. Quando dice che il posto fisso è "monotono", Mario Monti scommette che i giovani di questo Paese possano avere l'ambizione di una vita e di un carriera in salita: non tranquillamente ma inesorabilmente "piatta". Per tornare a crescere, di quest'ambizione l'Italia ha bisogno.
Alberto Mingardi
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