Ma non c'è bisogno di andare in Francia. Il lupo più famoso del Medioevo è nostro, è umbro: «nel contado d'Agobbio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziandio gli uomini… E tutti andavano armati quando uscivano della terra come s'eglino andassono a combattere». San Francesco, sappiamo, lo ammansisce, ma fa anche una bella predica al popolo, «dicendo, tra l'altre cose, come per i peccati Iddio permette cotali pestilenze, e troppo è più pericolosa la fiamma dello inferno che non è la rabbia del lupo».
A quelli che gridano al lupo al lupo, il santo consiglia, in definitiva, senso della misura: ci sono cose per cui stare in paura e in tremore assai più che per «la bocca di un piccolo animale». Splendida, in senso ecologico, la conclusione: «E poi il detto lupo vivette due anni in Agobbio, ed entravasi dimesticamente per le case a uscio a uscio, senza far male a persona e senza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalle genti, e andandosi così per la terra e per le case, giammai niuno cane gli abbaiava».
Sottosotto, Francesco mi sembra mettere fortemente in dubbio la credenza ben manifesta nei Bestiari del suo tempo, ispirati al Fisiologo della tarda latinità, dove gli animali sono visti in chiave allegorica. Prendiamo ad esempio il Bestiaire di Pierre de Beauvais. Ci dice che il nome lupo ha il significato di «rapire a forza» e continua immediatamente: «e per questa ragione, è a giusto titolo che si chiamano lupe le donne svergognate che distruggono le buone qualità degli uomini che le amano». Ci informa di alcune caratteristiche: il lupo è forte nel petto ma debole nelle reni. Non può girare la testa all'indietro, si nutre di prede ma anche di vento. La femmina partorisce soltanto in maggio «quando tuona», e va a caccia per i piccoli sempre lontano dalla tana e sempre avanzando controvento. Se le capita inavvertitamente di far rumore, si punisce mordendosi la zampa. Ha gli occhi che di notte risplendono come candele. E si arriva alla conclusione: «il lupo rappresenta il Diavolo, poiché costui prova costantemente odio per la razza umana e si aggira attorno ai pensieri dei fedeli per trarre in inganno le loro anime… Gli occhi del lupo che brillano nella notte sono le opere del Diavolo, che sembrano belle e piacevoli agli uomini sprovvisti di ragione e a quelli che sono ciechi negli occhi del cuore… Il lupo toglie tutta la forza di gridare a un uomo quando lo vede per primo… Che costui lasci allora cadere le sue vesti ai piedi, e le calpesti picchiando due pietre una contro l'altra con le mani: toglierà così forza e coraggio al lupo che prenderà la fuga». Tutto ha un significato spirituale: le vesti lasciate cadere e calpestate sono i peccati di cui l'uomo si libera con la confessione; le due pietre sono i santi e gli apostoli che intercedono per noi presso Dio.
Nascono probabilmente da queste elucubrazioni la paura e la diffidenza verso il lupo. Che trovano radici anche più antiche nella ostinazione dell'animale a non volersi integrare con gli uomini, a non diventare domestico come il cane o l'asino o il cavallo o il bue: nella scelta della feritas, della selva, del mondo animale e violento, libero e senza leggi. Ricordate la favola di Esopo, che per altro ai lupi ne dedica a dir poco una ventina: il lupo vede il cane ben pasciuto alla catena e fa gli scongiuri: «non tocchi mai questa sorte a un lupo mio amico! perché la pesantezza di quel collare vale la fame».
Ma gli esseri umani possono anche provare attrazione verso la feritas, verso il mondo marginale dei lupi. Se il Kevin Costner di Balla coi lupi o il Mowgli del Libro della giungla ci capitano un po' per caso, un importantissimo personaggio mitico come Licaone incarna l'istinto insopprimibile che ci riporta verso lo stato di natura. Nelle Metamorfosi di Ovidio la storia di Licaone è raccontata da Giove in persona. Figlio di Pelasgo e fondatore della prima città degli umani (Licosura sul monte Liceo: in tutti questi nomi compare la radice di lupo, lykos in greco ) e dei giochi più antichi, Licaone è una figura contraddittoria, divisa. Quando Giove, in forma d'uomo, arriva da lui «nel tardo crepuscolo ormai volto a notte», egli subito medita di ucciderlo, per vedere se è un Dio o un mortale. Ma prima di passare all'azione uccide un ostaggio, lo fa a pezzi e lo cucina metà arrosto e metà in brodo, per servirlo come cena all'ospite. Giove indignato col fulmine fa crollare la casa e l'empio fugge atterrito nei boschi «e si mette a ululare; sfoga la voglia consueta di ammazzare sui greggi, e continua anche adesso a gioire del sangue. Si mutano in peli i vestiti, le braccia diventano zampe… ma serba un'ombra del volto di un tempo. Il pelo grigio è immutato, immutato l'aspetto feroce; bruciano gli occhi immutati, e lui resta l'immagine stessa della violenza (eadem feritatis imago est)».
Eccoci dunque al licantropo, figura del folklore di tutti i tempi. A tanti verrà subito in mente l'istrionico Jack Nickolson di Wolf, ma io consiglierei di rileggere la pagina del Satyricon dove un ricco liberto, al banchetto di Trimalcione, racconta quella che giura essere stata una sua esperienza diretta. Una volta, quando era ancora schiavo, in assenza del padrone fa un'escursione notturna con un soldato «forte come un demonio»; arrivati in un cimitero, il soldato si sveste tra le tombe, piscia intorno ai suoi vestiti, diventa lupo e fugge via ululando. L'altro tremando, raggiunge il podere di un'amica che gli dice: un lupo è appena entrato nel pollaio e ha sgozzato tutte le bestie, però uno dei servi è riuscito a ferirlo. A giorno, di ritorno alla casa del padrone, ecco che ritrova il soldato a letto, grosso come un bove, «e c'era un medico che gli curava il collo». È una delle più belle storie di paura che conosca, con un modestissimo spreco di sangue.
Il vecchio Tolstoj invece nel 1908 usa il lupo per una favoletta che farà la delizia dei vegetariani. C'era un bambino che aveva paura dei lupi e amava la carne di pollo. Una notte sogna un lupo e si spaventa, teme di essere sbranato, ma il lupo gli dice: Hai paura che io ti mangi, ma tu che cosa fai? Non è vero che ti piacciono i polli? E allora perché li mangi? Va' a vedere come li catturano, li portano in cucina, gli tagliano la gola. In fin dei conti anche tu sei un pollastrello, e così io ti mangio. Il bambino si sveglia con uno strillo: «E da allora smise di mangiare carne: non mangiò più carne né di manzo, né di vitello, né di agnello, né di pollo».
A Lezzeno addirittura abbiamo una favola con un lupo rimasto infantilmente goloso di latte. Da noi il latte veniva conservato nei bait, minuscoli crotti dove si tenevano in fresco le conche del latte su un pavimento di ghiaia coperto d'acqua corrente. A livello del suolo c'era sempre dunque un'apertura da dove usciva l'acqua. Magri dalla fame, il lupo e la volpe vi si infilano, raggiungono le conche. La volpe screma il latte con la lingua e sa frenarsi in tempo. Il lupo invece si ingozza di panna e di latte e si gonfia in modo spropositato. La volpe riesce a tornare all'aperto, il lupo rimane intrappolato e bastonato dal contadino che lo sorprende. C'è una coda beffarda: all'uscita, il poveretto pesto e dolorante ritrova la compagna d'avventure che finge di star male e gli chiede di prenderla in spalla. Lui paziente se la carica, e lei insolente canticchia: roo roo el malaa el porta el soo (piano piano il malato porta il sano). Davvero c'è da aver paura del lupo cattivo?
Basilio Luoni
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