Il problema è che Mario Arrighi non è un caso isolato. La sua non è l'unica aziendina che abbassa la serranda perché non ce la fa più, a tenere il passo con i costi che lievitano. Fra questi, il carico fiscale ha una sua natura beffarda. L'educazione civica ci insegna che “lo Stato siamo noi”.
La retorica imbracciata dall'attuale governo, nella lotta contro l'evasione, enfatizza oltremodo la dimensione del “dovere” fiscale. Ma pagare le tasse non è come fare un fioretto, non è darsi la disciplina di una dieta. La nostra “lealtà fiscale” ha poco a che vedere con un patto che abbiamo fatto con noi stessi e con gli altri: si riduce a sacrificare al fisco una certa quota dei frutti del nostro lavoro, sulla base di una decisione sulla quale non abbiamo modo d'influire.
Gli italiani votano per cambiare lo Stato nel quale vivono perlomeno dal 1992. La corruzione venne all'epoca correttamente compresa dai più come una conseguenza di alta spesa pubblica ed alta tassazione. La domanda di cambiamento non ha trovato chi sapesse darvi risposta, compiutamente, con un progetto politico. Il risultato è che, allora come oggi, ai buchi nel bilancio pubblico creati da una spesa clientelare si risponde in un modo soltanto: aumentando la pressione fiscale.
Le cose vanno così per una ragione molto semplice. I tanti imprenditori d'Italia sono politicamente afoni. Al contrario, coloro che vivono di spesa pubblica hanno una voce squillante. Ridurre la spesa significherebbe per loro la perdita di un beneficio tangibile: sanno difenderlo con forza, i partiti politici sono terrorizzati dal rinunciare al loro consenso elettorale. Per il “popolo dei produttori” una manovra oggi significa un inasprimento fiscale fra qualche mese.
Il danno che viene causato loro dalle imposte “non lo vedono” sino a quando non devono dare prova della propria “lealtà fiscale”. Inoltre, il nostro fisco è nebuloso e complesso come pochi: e anche per questo rende difficile ai contribuenti fare fronte comune. A vent'anni da Tangentopoli e dall'ascesa della Lega e a diciotto dalla discesa in campo di Berlusconi, i contribuenti italiani ancora non hanno voce - e chi si candida a dargliela (penso ad associazioni come i “Tea Party”
italiani) fatica a farsi ascoltare proprio dal mondo dell'impresa, che nelle sue articolazioni istituzionali troppo spesso preferisce baratti un po' miopi (incentivi e sconti) a una limpida battaglia per la riduzione della fiscalità.
La classifica “Doing Business” della Banca Mondiale ci ricorda come in Italia a un'impresa servano 285 ore di lavoro, contro una media di 186 dei Paesi OCSE, per dimostrarsi “fiscalmente leale”. Gli italiani pagano tasse alte, più una tassa occulta: la complessità degli adempimenti aggiunge un sacrificio in tempo al sacrificio in denaro.
Tutto questo non è privo di conseguenze. Nel suo ultimo libro, “La repubblica delle tasse”, Luca Ricolfi ha sostenuto che il Paese non cresce perché i produttori di ricchezza sono tartassati di tasse più che in ogni altro Paese occidentale. Tant'é che, sostiene Ricolfi, il Sud cresce, ancorché poco, più del Nord che produce, perché evade le tasse più di quanto non faccia il Nord.
Come reagiscono i “produttori”? Chi può, va altrove. Chi è sufficientemente spregiudicato, evade - poco o molto. Chi non se la sente, chiude.
A questa realtà non si risponde con le prediche sulla lotta all'evasione. D'accordo, l'Italia ha poco “senso civico”: piacerebbe a tutti vivere in un Paese dove nessuno getta cartacce per terra. Ma per avere “senso civico”, bisogna considerare la “res publica” come qualcosa di proprio. E come si fa a considerare “qualcosa di proprio” uno Stato che ti tassa al punto da renderti impossibile condurre una modesta attività economica?
Tutte le imposte sono recessive. Con un fisco che si mangia il 50% di quanto produciamo, non si può crescere. Una pressione fiscale così alta rende inoltre impossibile agli italiani pensare di essere cittadini, e non sudditi, di questa loro Repubblica. Non basterà la paura a renderci contribuenti migliori: ma basterà a fare fuggire teste e capitali che a questo Paese potrebbero dare molto.
Alberto Mingardi
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