Si profila un braccio di ferro diplomatico tra Italia e India, e appare abbastanza certo che al contenzioso non siano estranee le turbolenze politiche di un Paese in cui sono prossime importanti scadenze elettorali. Il partito di governo, presieduto da Sonia Ghandi - che alle vittoriose elezioni del 2004 aveva rinunciato al ruolo di premier, in favore di Manmohan Singh proprio perché giudicata «non abbastanza indiana» dall'opposizione - ha tutto da guadagnare nel mostrare un volto duro e inflessibile. Verrebbe da dire, innanzitutto, che c'è stata una certa ingenuità, nel comando della nave mercantile - tempi duri per i comandanti italiani - nel rientrare in acque indiane, forse attirato da un tranello, convocato per riconoscere l'imbarcazione che aveva tentato l'abbordaggio.
E verrebbe da aggiungere che Roma si è mossa lentamente, e senza sufficiente fermezza. Nulla conferma sinora la colpevolezza dei due militari, ma Paesi come gli Stati Uniti non hanno avuto bisogno di prove a discarico per evitare che loro uomini, dal Cermis al posto di blocco di Bagdad in cui morì Calipari, non finissero sotto processo altrui. Ma riesce difficile entrare in questo dibattito e in queste analisi, quando si parla di amici.
Perché Massimiliano Latorre per me è Max. Mi aveva telefonato poche settimane fa. Era a Roma, e mi invitava a raggiungerlo in una qualche pizzeria, almeno per il caffè. Adesso posso pentirmi doppiamente per non averlo raggiunto, e per essermi limitato a chiedere cosa facesse a Roma. Gliel'ho chiesto perché era salito altre volte, da Taranto, per esami medici di cui un suo figlio aveva bisogno, e temevo fosse così anche stavolta. No, stava per partire in missione. Dove? «Non te lo posso dire, Toni», ha risposto.
Ci siamo salutati, e detti arrivederci, alla prossima. Alla prossima missione, sottinteso, perché ho conosciuto Max a Kabul, quattro o cinque anni fa. Non è l'unico amico con cui sia rimasto in contatto, tra quelli conosciuti allora e altrove, ma è tra quelli con cui ho continuato a sentirmi più spesso. A Kabul Max viveva, con i suoi del San Marco, in un container dentro l'aeroporto militare, in quella che era conosciuta come «base Pantera».
Per qualche giorno, mentre io giravo un servizio sul lavoro degli elicotteristi italiani, mi aveva fatto da scorta, nei percorsi sempre insidiosi tra l'aeroporto di Kabul e la base italiana di camp Invicta, molti chilometri più in là, in fondo alla Jalalabad Road. Max è un tipo tranquillo e allegro, ma molto professionale. Scherzavamo prima di uscire, mentre indossava il giubbotto antiproiettile e controllava le armi, prima di spiegare agli altri ragazzi della scorta le caratteristiche del percorso e i compiti di ciascuno. Ma quando uscivamo si chiudeva nel silenzio, decideva un altro percorso se qualcosa lo insospettiva, teneva lo sguardo fisso sulla strada, sulle automobili che ci affiancavano o su quelle che sorpassavamo.
La radio di bordo mandava in continuazione «warning» sula presenza di attentatori. Con Max si poteva riprendere a scherzare e a parlare dopo che eravamo giunti a destinazione. E in quel rapporto di gratitudine che si crea con chi si prende cura di te, in quel rapporto di complicità che nasce quando sfiori insieme i pericoli, si infilano confidenze che altrove sarebbero fuori luogo: la famiglia, i figli, le vacanze, il lavoro. Insomma, non è stato difficile voler bene a Max.
Potrei dire lo stesso di tanti altri militari, conosciuti in posti nei quali i rambo dell'immaginario collettivo diventano semplicemente uomini con le loro sfide, con la loro forza e le loro debolezze, con la loro generosità e le loro nostalgie. Ne ho visti passare tanti, perché ero in Libano, all'inizio degli anni '80, in quella che era la prima missione del dopoguerra, ancora con i soldati di leva. Li ho visti crescere e acquistare esperienza, imparare le lingue e combattere, aiutare genti straniere e farsi voler bene. Ho visto i meridionali tra gli alpini e le ragazze in divisa, in un mondo che cambia rapidamente, dappertutto. Li ho visti fare carriere ed essere dimenticati, andare in pensione ed essere sostituiti da giovani.
Ho conosciuto ragazzi che sarebbero morti, come il tenente Ficuciello, e ragazzi tornati a casa in sedia a rotelle, come l'alpino Luca Barisonzi. Ho viaggiato sui Lince, sperando non toccasse a noi l'attentato ai bordi della strada, e non immaginando che si possa morire anche per un guado traditore. Ma una convinzione me la sono portata dietro, maturata nei fatti e rafforzata da dettagli: sono italiani nascosti, che fanno notizia solo quando gli va male, e per il resto hanno le virtù silenziose di un Paese che lavora senza clamori, anche nei giorni che il resto si attorciglia su Sanremo o Courmayeur, sui tagli o sulle farfalle.
Toni Capuozzo
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