L'Argentina e la Grecia hanno entrambe patito la globalizzazione finanziaria e sono accomunate da una gestione terribile dei conti pubblici. Gli analisti non hanno però mancato di sottolineare subito: occhio, la Grecia è uno stato dell'Europa. Il dictat tecnico, a tutti noto, è quello di evitare il contagio, per amore dell'Unione. Ma quanto ama di rimando i suoi membri questa unione?
I bilanci taroccati della Grecia non erano un mistero a Bruxelles; e nemmeno i conti in rosso dell'Italia o degli altri piigs. Il debito e la moneta unica deprezzata tornavano comodi ai big. Quando però il rischio d'insolvenza ha superato il livello di guardia la differenza big-piigs è diventata subalternità: il vantaggio di chiudere un occhio è stato superato dall'urgenza delle banche creditrici (tedesche) di riscuotere. Ed ecco il default greco.
Uno stato sovrano ha qualche possibilità di fronteggiare il debito, stampando valuta e controllando la conseguente inflazione. Lo fanno gli Usa, l'ha fatto (male) l'Italia per decenni. Semplificando, si tratta di una specie di gioco col tempo, pericoloso, eppure talvolta efficace. Ma l'Europa non concede un minuto, la Bce per statuto non stampa e di nazioni sovrane tra i piigs non ce ne sono più. Per reperire il dovuto si spremono cittadini e imprese degli stati inefficienti.
Quando in Italia è subentrato l'esecutivo di Monti i più hanno sperato che all'incapacità dei politici seguisse una nuova armonia tra conti pubblici e crescita. Abbiamo invece sotto gli occhi un sodalizio dello Stato con le banche e un piano di austerity orientato al solo raddrizzamento dei bilanci statali. Le banche sono cruciali, ma lo sono anche gli investimenti pubblici, specie nelle fasi critiche del Pil, e i tagli ai ciclopici costi amministrativi. Di questo per ora non c'è traccia.
Le borse si rallegrano delIa diminuzione del rischio Italia e delle regalie della Bce. Eppure, dei 200 miliardi ricevuti dagli istituti italiani poco finisce nell'offerta di credito. Si direbbe che le stesse banche proiettino scenari cupi. È un fatto che l'Italia stia attirando meno capitali e che i piccoli e medi imprenditori, l'ossatura del Paese, siano esasperati da regole incerte e da una fiscalità soffocante.
Alcuni economisti temono che la pianta non cresca più a furia di potare, che la recessione impedirà all'erario d'incassare e che il ceto medio verrà massacrato. Noi auspichiamo che Monti non sia solo un interprete dell'urgenza di riscossione e che, oltre al fiscal compact europeo, abbia a cuore il risparmio e lo sviluppo in un mercato futuro libero e sereno.
L'Argentina ha sofferto, ma si è svincolata dal dollaro e cresce oggi al 7%. La Grecia, invece, non riuscirà per anni a rifinanziarsi e già si parla di un terzo piano di aiuti. Ma i creditori internazionali alitano come non mai sul collo dei debitori; manca la fiducia. Dopo anni di lassismo gli stati piigs sono vincolati da accordi economici irrigiditi. Uscire dalla finanza comunitaria sarebbe deleterio per molte nazioni. A questo punto ci si chiede però se restare arrancando non sia anche peggio per qualcuno. Com'è messa l'Italia in prospettiva? I nostri sono dubbi, non soluzioni. Siamo però certi che questa concertazione bancaria non è l'Europa che sognavamo.
Roberto Weitnauer
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