Alcuni la chiamano sospensione della democrazia, altri fine della cagnara: lasciamo a voi decidere quale definizione sia la più azzeccata. L'importante è convenire su un punto: sul piano delle scelte, delle decisioni e dei compromessi, la classe politica italiana ha fatto passi da gigante. Spaventata dalla prospettiva del "default", presa per mano dalla cordiale fermezza tipica dei professori inflessibili al governo, la compagnia stabile della politica italiana si è molto acquietata e, nel giro di alcune settimane, ha sottoscritto accordi su temi che, un tempo, bastava nominare per scatenare la bagarre. Non più tardi di qualche mese fa era sufficiente dire "pensioni" per ritrovarsi alle prese con la protesta di piazza, lo sbarramento dei talk show, l'ostruzionismo della minoranza e i distinguo interni della maggioranza. Oggi, nonostante qualche vivo mal di pancia, il Parlamento ha passato a larga maggioranza una riforma della previdenza di portata storica. E questo è solo un esempio: nonostante una serie di incertezze e alcune recriminazioni, il governo Monti con molta probabilità riuscirà a incidere anche - se bene o male è un'altra questione - su temi delicatissimi come il lavoro e la giustizia.
In questo orizzonte mutevole, un particolare rimane invariato, uno scoglio resta irraggiungibile: la riforma della Rai. Il cammello passerà più e più volte nella cruna di un ago, un senatore si farà ridurre lo stipendio e un sottosegretario rinuncerà all'auto blu prima che la politica raggiunga un accordo sulla televisione di Stato.
Se volete, è il paradosso nodale della gestione pubblica: tutti possiamo chiederci quanto Stato vogliamo, poco o tanto, nel mondo del lavoro, della finanza, perfino della previdenza sociale e arrivare a conclusioni diverse. Difficile però immaginare qualcuno che voglia ancor più politica nella Rai di quanta già non ce ne sia. Invece, è proprio quanto sta accadendo. L'impossibilità a raggiungere un accordo sulla Rai è il segnale inequivocabile che la politica non è affatto disposta a ravvedersi. Cede, e non di poco, su temi di grande importanza, sfiora l'impopolarità posponendo l'età pensionabile, ma non arretra di un millimetro quando c'è da nominare il direttore di un tg o piazzare un inviato a Caracas.
A parte i diretti interessi di qualcuno nell'assetto televisivo nazionale, la ragione di tanto attaccamento sta nella stima per eccesso che la politica fa di se stessa, nel voler a tutti i costi reggere il microfono, invece di limitarsi a riversare in esso le risposte dovute a un sano sistema informativo. È vero che, in passato, celebrità del giornalismo si sono riferite ai partiti come a "editori", tradendo più orgoglio che rassegnazione, ma per quanto dell'uso politico della tv si sia fatta una consuetudine, rimane questa una colossale anomalia italiana, un sequestro di persona mediatico e una gestione sfacciatamente interessata del denaro pubblico e del potere d'anticamera. Triste dirlo, ma la politica guarda alla Rai come i concorrenti guardano all'"Isola dei famosi": un reality show che, per quanto brutto, in mancanza di alternative finisce per diventare la realtà stessa. E dunque contare più di ogni altra cosa.
Mario Schiani
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