Mai come ieri, è stato evidente che - al di là di ambizioni e estemporanei protagonismi dei ministri - il governo è Monti. La faccia è la sua, lui ne è pienamente consapevole, e fa assegnamento soprattutto sul suo prestigio personale e sulla sua capacità di comunicare.
E tuttavia, non è tutt'oro quel che luccica. Ci sono due elementi preoccupanti, nel perfetto discorso del premier.
Primo, le staffilate inferte a Francesco Giavazzi, innanzi a un uditorio tradizionalmente non amico dell'editorialista del Corriere della sera, mai tenero con le corporazioni, Confindustria inclusa.
La colpa di Giavazzi è aver scritto un editoriale nel quale ha dato sostanza a una considerazione sfuggita allo stesso primo ministro, qualche giorno fa: quella sull'ampliamento dello spread fra governo e partiti. Scendono gli spread, ha spiegato Giavazzi, qualcuno comincia a pensare che l'emergenzia sia finita, l'opera di riforma diventa più difficile perché la paura del crac era un potente stimolo ad anteporre la ricerca di soluzioni per il Paese alla ricerca del consenso. Con tutto il rispetto per Giavazzi: sono considerazioni al limite dell'ovvietà.
Monti le ha prese di petto. L'impressione che il premier restituisce è quella di una certa intolleranza al dissenso. Monti non gradisce le critiche, le fa a pezzi con l'ironia, ma non nell'agone di una trasmissione televisiva, dove chi viene attaccato ha diritto di replica, bensì da un podio solitario.
E tuttavia il caso è significativo, e per certi versi preoccupante. Ogni governo ha bisogno di un'opposizione, e ogni governo responsabile non può accontentarsi di un'opposizione sguaiata e a conti fatti sterile come quella della Lega. Il confronto serve per migliorare la qualità delle decisioni.
Secondo, la riforma del lavoro. Se chi promette di migliorare il diritto del lavoro schiaffeggia Giavazzi e accarezza i sindacati, c'è da preoccuparsi. Ed effettivamente se guardiamo alle bozze di riforma che circolano in questi giorni, l'impressione è che a un annacquamento dell'articolo 18 corrisponda una diminuzione della flessibilità in entrata, attraverso un giro di vite su tutte le forme di collaborazione a tempo determinato.
Ha scritto Giuliano Cazzola che "per potersi avvalere di queste forme di impiego, fino ad ora riconosciute dalla legge, i datori saranno costretti a subire una sorta di inversione dell'onere della prova, nel senso che dovranno essere loro a dimostrare la regolarità di rapporti altrimenti ritenuti elusivi di quel contratto di lavoro a tempo indeterminato assunto ed indicato come condizione di lavoro normale e prevalente".
L'obiettivo che si è dato il governo è di equilibrare il costo tra lavoro dipendente a tempo indeterminato e tutte le altre forme contrattuali. Ma ciò si realizzerebbe attraverso maggiori obblighi amministrativi quando si ricorra a rapporti flessibili, anziché riducendo il costo dei contratti a tempo indeterminato. Il tutto, per citare ancora Cazzola, "nel nome di un XI comandamento che recita: solo il rapporto a tempo indeterminato è vero lavoro".
Se mettiamo assieme l'irritazione per le critiche riformiste, e quanto filtra sino ad ora dell'ipotesi di riforma del lavoro, un dubbio ci viene. Che cioè il governo gradisca poco essere criticato, perché sa di essere criticabile. La differenza fra governo tecnico e governo politico non starebbe dunque negli errori che commettono: ma nel diverso gradi di consapevolezza nel commetterli.
Alberto Mingardi
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