Una piccola luce che cercava di superare il buio delle posizioni ideologiche sul lavoro, che non è - come qualcuno vorrebbe - una merce di scambio come le altre, ma che comunque deve evolvere e cambiare i suoi assetti. Marco Biagi non riuscì a vedere la rivoluzione provocata dall'ingresso della Cina del Wto (ingresso che divenne ufficiale nel dicembre 2001). Ma con la lungimiranza del riformista autentico capì che la globalizzazione e la competizione tra sistemi economici avrebbero imposto un cambiamento radicale del modo di intendere il lavoro. Una lezione che, in questi dieci anni, l'Italia non è riuscita ad applicare per colpa di tutti. I sindacati sono rimasti arroccati su posizioni spesso ideologiche e vecchie. Gli imprenditori, al di là dei proclami fatti in mille convegni, hanno mostrato di essere incapaci di guardare oltre il tornaconto immediato. Mentre i politici o guardavano da un'altra parte o provavano a cambiare gli assetti contrattuali facendo prevalere logiche punitive alla volontà di migliorare il lavoro e i suoi assetti.
Ora il governo Monti - con la riforma del mercato del lavoro e la modifica dell'articolo 18 - vuole portare il paese nel lavoro nuovo. Il valore cardine è l'occupabilità che sostituisce e cambia il concetto di occupazione. Quest'ultima era pensata e serviva in un modello economico fordista-taylorista, per sua natura rigido e, se vogliamo, anche prevedibile (sempre all'interno dell'aleatorietà dell'economia). È un modello che è andato bene fino alla rivoluzione introdotta dalla globalizzazione. E nella stragrande maggioranza dei casi, prevedeva che il lavoratore entrasse in azienda ragazzino e ne uscisse da pensionato. In un simile percorso di lavoro si poteva anche prevedere con ragionevole certezza la progressione di carriera di ognuno.
Poi, l'economia è diventata globale. Per restare competitive sui mercati le nazioni più avanzate sono entrate nell'economia della conoscenza e della flessibilità che richiede alle aziende un assetto diverso, al quale si devono adattare tutte le componenti, lavoro compreso. In questo contesto, il modello del mercato del lavoro che sposa meglio le esigenze di flessibilità e produttività con la tutela dei lavoratori è la flexicurity scandinava.
È un modello che si può copiare, ma il problema è la sua applicazione. La cultura economica e d'impresa italiana non è quella degli scandinavi. Quindi, per riuscire a rendere efficace anche in Italia la flexicurity tutti i soggetti devono superare diffidenze e pretese di rivalsa. E soprattutto bisogna introdurre un sistema di formazione continua per i lavoratori, che devono poter disporre di un bagaglio di competenze sempre aggiornato sulle esigenze del mercato e delle imprese. Solo così, i lavoratori nel momento in cui perdono un lavoro possono avere l'opportunità di trovarne un altro.
La domanda al momento senza risposta è: in Italia si riuscirà a costruire un sistema efficiente ed efficace (e non costruito su clientele) di formazione continua?
Gianluca Morassi
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