L'arresto di don Marco Mangiacasale è un trauma per questa città, per questa Diocesi, per questo giornale - di cui era fino a pochi giorni fa consigliere di amministrazione - e anche per chi scrive questo pezzo. Un trauma profondo e dolorosissimo per le centinaia di comaschi che lo conoscevano, lo frequentavano, gli affidavano la cura della propria anima e quella dei propri figli all'oratorio o al Grest. E' quindi facile immaginare la domanda - semplice ma insondabile, perché destinata a restare senza risposta - che si staranno facendo fin dal primo giorno: "Com'è potuto accadere? Come ho fatto a non accorgermene? Ma quella è davvero la persona che conoscevo io?".
Lo stupore, la rabbia, l'indignazione e addirittura il disgusto nel leggere - e nello scrivere, potete starne certi - le accuse intollerabili di violenza sessuale che l'economo della Diocesi ha tra l'altro già ammesso stanno trascolorando in tanti comaschi, in tanti fedeli, in tanti lettori in uno strisciante senso di nausea di fronte a contenuti così sconvolgenti e a titoli così impietosi. Molti ci hanno scritto e altri ci hanno telefonato per chiedere di smetterla, per dire basta a quella che è ormai diventata una tortura quotidiana. E' una reazione comprensibile, e nessuno può capirla più di chi ha dei figli ancora piccoli che cerca in ogni modo di proteggere dai mali della vita. Esaudirla, però, rappresenterebbe un nobile moto d'istinto, ma al contempo il peggiore dei tradimenti. Un giornale serio che voglia interpretare al meglio la propria vocazione - raccontare tutto quello che accade in una città - non può permettersi di nascondere una notizia perché troppo sconvolgente. Sarebbe un errore. La Provincia deve selezionare le notizie importanti rispetto a quelle secondarie, deve interpretarle dando voce a tutti i soggetti coinvolti ma non può, non può assolutamente, chiudere gli occhi o abbassare lo sguardo. Deve sempre guardare dritto davanti a sé e raccontare ai suoi lettori quello che succede. Tutto. Sempre.
Non è morbosità o scandalismo o faciloneria o cinica ricerca di qualche copia in più. È solo il senso del nostro mestiere. Noi dobbiamo raccontare la vita e la vita è piena di orrori. Non è nascondendoli che si combattono. Sappiate, cari comaschi, che da due settimane stiamo seguendo le cronache ogni giorno più avvilenti di don Marco senza cinismo o spregiudicatezza, ma con un'angoscia profondissima che si coglie nei volti di chi scrive gli articoli, di chi fa i titoli, di chi imposta le locandine e di chi - il sottoscritto - deve poi assumere su di sé tutta la responsabilità di quello che arriva in edicola.
In fondo, questa è una vicenda altamente pedagogica: ci fa cogliere quanto sia inconoscibile, sempre, l'animo profondo delle persone - perché nessuno conosce mai nessuno, mai -; ci fa capire quanto il Male sia misterioso e onnivoro e pervasivo e cosa significhi davvero l'espressione emblematica, titolo di un grande romanzo, "la cognizione del dolore". Troppo dolore in questa vicenda, c'è da rimanerne uccisi. Ma il dolore - se non ti piega - ti rende migliore. Ti fa capire quali sono le cose che contano e quali no, ti fa intuire che dietro ogni cicatrice brilla una nuova speranza, ti fa gustare in ogni gioia improvvisa un antico risarcimento, ti fa scegliere le emozioni vere e pure rispetto a quelle che ti portano alla perdizione.
E se in ogni dramma, a un certo punto, arriva il momento della pietà e della vicinanza - per quelle povere ragazzine rovinate forse per sempre, per le loro famiglie distrutte, per don Marco prigioniero dei suoi demoni, per la Curia comasca e il suo vescovo mai come oggi pilastro della fede e della storia della nostra terra - beh, questo è quel momento.
Diego Minonzio
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