Quando qualche giorno fa il presidente della Commissione della Conferenza Episcopale per il lavoro, l’arcivescovo Giancarlo Bregantini, se ne uscì dicendo che "i lavoratori non vanno considerati merce, non possono essere prodotti da dismettere per ragioni di bilancio", incassò qualche applauso interessato dalla sinistra e una selva di critiche e di "altolà" dai commentatori economici e dal mondo politico che, adesso, si sente tutto convertito alla sacra missione di salvare l’economia italiana. La Chiesa si occupi delle anime, era il senso delle critiche, che all’economia ci pensa il Governo dei tecnici.
Può darsi che il focoso arcivescovo abbia sbagliato il tono. Ma poi in una bella mattina di marzo accade che un uomo di 58 anni, a Bologna, si dà fuoco davanti alla Agenzia delle Entrate dopo aver lasciato due lettere, una alla Commissione tributaria e una alla moglie. Lo ha fatto per gridare con un gesto estremo la disperazione di non farcela più con i conti, di sentirsi strozzato da uno Stato pieno di buchi e di inefficienze ma con le tasse più alte d’Europa, ma soprattutto uno Stato che non riesce a distinguere tra chi è furbo e chi invece è in difficoltà. Allora bisogna fermarsi, e riconsiderare il punto di verità contenuto in quelle parole. L’economia, cioè ricchezza e povertà, dunque pure le tasse, non sono una questione per tecnici, senz’anima: riguardano la vita dell’uomo. Sono strumenti per la sua vita, non possono essere una condanna a morte.
Il tragico episodio di ieri a Bologna ha la particolarità - almeno per quanto se ne sa fino dalle cronache - di essere legato a una grave difficoltà con il fisco da parte di un piccolo artigiano. Non è il primo caso. Seppure con esiti meno gravi, sono sempre più le storie di piccoli imprenditori o lavoratori autonomi che a causa della crisi si trovano stritolati da una macchina tributaria troppo rigida per poter valutare caso per caso, costretti a chiudere bottega, quasi sempre senza la sponda di una banca "amica" davvero. Per non parlare delle aziende che rischiano di finire a gambe all’aria perché una Pubblica amministrazione solerte ad esigere il proprio è invece colpevolmente lenta quando si tratta di saldare i suoi creditori. Tutto questo merita un giudizio ben preciso: è vero che stiamo vivendo la peggior crisi dal Dopoguerra, è vero che serve rigore da parte di chi ci governa, ma la consapevolezza che dietro ai numeri dell’economia ci sono persone, famiglie, non può essere dimenticata in nome della tecnica, o relegata alle prediche dei preti.
C’è poi un secondo aspetto. I casi di imprenditori che si suicidano perché non ce la fanno più ad andare avanti e a pagare gli stipendi stanno aumentando tragicamente. Era iniziata nel Nord-est, e quando due o tre anni fa i giornali locali più attenti iniziarono a parlarne si disse che era allarmismo fuori luogo. Sfiducia e depressione non sono parole che si applicano solo ai mercati finanziari e allo spread: sono questioni umane, troppo umane. Quasi tutti gli imprenditori che in questi mesi terribili si sono tolti la vita lo hanno fatto - paradossalmente - per un senso di responsabilità: la "responsabilità" di non poter più pagare gli stipendi, di non poter più sostenere con la propria capacità e forza di lavoro la speranza di altri uomini, che su quelle loro capacità contavano per la propria vita. La fiducia e la speranza non sono una merce.
Maurizio Crippa