Così il franco che ha sfondato la soglia di 1,2 sull'euro - il tetto massimo stabilito dalla Banca centrale svizzera a settembre - non può concedersi la sensazione di essere una bevanda inebriante, ma svela sfacciatamente il suo retrogusto di veleno fino ad autointossicarsi; tanto che lo stesso istituto ha annunciato di dover intervenire sul mercato acquistando moneta a volontà. Obiettivo, mantenere la valuta sotto il livello indicato appunto sul finale dello scorso anno.
Ancora a dicembre, si prometteva «tutta la determinazione necessaria» da parte svizzera per far prevalere quel corso minimo. Ma come frenare l'ansia degli investitori, che non sanno più quali beni rifugio pigliare e se devono guardare a una moneta, puntano gli occhi verso quella capace di parlare il linguaggio della sicurezza per eccellenza?
Il dramma è che questa è economia reale, concretissima per le nostre zone. Lo spread è un termine lontano che ci ha perseguitato quasi più per oscurità linguistica che per comprensibili effetti sulle nostre vite. La Borsa è un luogo che per quanto riguarda ancora molti di noi, potrebbe anche non esistere e limitarsi a comparire malinconicamente sul piccolo schermo o nel tintinnio minaccioso degli aggiornamenti radio.
Il franco svizzero e la sua forza devastante hanno invece a che fare con la nostra quotidianità di province di confine, abituate a trattare, scambiare, a volte scherzosamente maledire e più spesso invidiare i nostri vicini. Scuote l'immenso pianeta dei frontalieri, che già da tempo sono alle prese con il tentativo furbetto di essere pagati in euro, tanto per cominciare: e meno male che lo scorso marzo a Lugano è arrivata una prima condanna nei confronti di un'azienda che cercava di compiere questa manovra, naturalmente a un cambio favorevole solo a se stessa. Un segnale importante, ma che non mette al riparo da analoghe mosse, visto che a livello legislativo non esistono divieti.
Destini incrociati. Pensiamo ai contraccolpi sul turismo e al significato doppio: meno visite, meno posti di lavoro per i frontalieri. O ancora alle abitudini dei "pendolari dello shopping", come cambiano danneggiando talvolta non più solo gli uni, bensì irrimediabilmente anche gli altri.
Insomma, se i nostri frontalieri accumulano la loro consistente dose di grane, oltre confine non si ha voglia affatto di sorridere. Il superfranco contribuisce a erigere un muro, che gli svizzeri sono i primi a non avere alcun interesse a volere. A sospingere verso una chiusura che non è benefica, o protettiva, ma taglierebbe ulteriormente l'export e ne farebbero le spese pure i nostri lavoratori. Sì, il superfranco incute un sacro timore, ma in fondo si insinua la bella notizia: siamo tutti nella stessa barca. E adesso se ne devono rendere conto anche nelle valli svizzere.
Marilena Lualdi
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