La legge non ammetterà ignoranza. Ma neppure la superficialità di cui è intrisa la storia dell’elettricista costretto a trascorrere 21 giorni, Pasqua compresa, in carcere. Per un paio di birre sorseggiate sei anni fa, prima di mettersi al volante. Tre settimane chiuso in cella per colpa di una somma di sfortunate circostanze, per dirla con la voce di una visione dei fatti forse troppo ottimistica, o a causa di una colpevole e collettiva mancanza di professionalità, se si preferisce indossare i panni dell’indignazione.
Di sicuro, pur imboccando una più consona via di mezzo, il signor Giuseppe, elettricista che in 49 anni di vita ha tenuto ben spolverata la propria fedina penale non fosse per quell’unica denuncia per guida in stato di ebbrezza, in carcere non doveva andare. E invece non solo c’è entrato, ma il suo nuovo avvocato ha dovuto dannarsi l’anima per riuscire a farlo tornare a casa. È certo che il signor Giuseppe, in queste tre settimane al Bassone, ha avuto anche troppo tempo per dolersi della sua dose di colpa. Il giorno in cui, sei anni fa, venne fermato per guida in stato di ebbrezza, sapeva infatti di essere stato denunciato. Sarebbe stato dunque suo onere interessarsi sull’andamento della causa.
La legge, come detto, non ammette ignoranza. Eppure ci sono circostanze, situazioni, contingenze nelle quali è difficile pretendere dai non addetti ai lavori la presenza di spirito necessaria per riuscire a maneggiare le norme. È per questo che il sistema ci ha dotato di una serie di garanzie: gli avvocati, i magistrati, le forze dell’ordine. Nel caso dell’elettricista di Rovellasca, trascinato in una cella in cui non doveva finire, tutte queste figure hanno svestito i panni dei garanti. E il sistema gli è crollato addosso.
L’Italia ha uno degli ordinamenti giudiziari più garantisti e civili del mondo occidentale. Quasi sempre. Perché talvolta il sistema va in corto circuito. Accade quando prassi, routine, superficialità e l’incapacità di capire che dietro a ogni fascicolo c’è un essere umano mandano in tilt gli ingranaggi della giustizia, finendo per stritolare i più deboli. La storia del signor Giuseppe è purtroppo popolata di inaccettabili superficialità. A cominciare dal primo difensore, l’avvocato d’ufficio milanese che non si è preoccupato né di chiedere la sospensione condizionale della pena - se non addirittura la conversione in ammenda pecuniaria - il giorno della condanna né, successivamente, di fare istanza per ottenere una misura alternativa al carcere.
Uno zaino pieno di indignati indici accusatori non può essere risparmiato neppure al giudice che, nella sua sentenza, non ha pensato di concedere la condizionale. È vero, non è obbligatorio farlo: ma la fedina penale pulita e l’irrisoria entità della condanna avrebbero dovuto consigliare un professionista del diritto a scegliere una strada garantista. Ma ciò che, della vicenda del signor Giuseppe, indigna maggiormente è quanto accaduto dopo il suo arresto. Così come un organismo sano trova gli anticorpi alle proprie malattie, allo stesso modo il nuovo difensore avrebbe dovuto impiegare non più di un pomeriggio per riuscire a ottenere il ritorno a casa del proprio assistito. E invece ci sono volute ben tre settimane di insopportabili adempimenti burocratici perché una palese follia venisse sanata. Regalando la spiacevole sensazione di poter vivere tutti quanti lo stesso incubo del signor Giuseppe. Ma, forse, è solo una sensazione superficiale.