Una crostata per pagare il pulmino della scuola. La torta alla crema per saldare il conto della bottega. Due canzoni dei Beatles o tre dei Deep Purple per comprare i buoni pasto per la mensa dell’asilo.
Perso il lavoro, senza stipendio e con l’assegno di cassa integrazione che ancora non si vede, i 96 dipendenti, anzi ex dipendenti della Pontelambro Industria che ha dichiarato fallimento, invece di scendere in piazza per protestare o attendere gli aiuti pubblici che pure gli spettano, hanno deciso di fare da soli. Dopo aver fatto la mappa dei bisogni di ognuno - reddito, spese fisse, figli a carico, genitori anziani, ecc. - hanno organizzato una raccolta fondi e una colletta tra di loro per alimentare un fondo di solidarietà secondo il principio che chi sta meglio deve aiutare chi è meno fortunato. Donazioni anche di pochi euro, vendita di torte fatte in casa, spettacoli musicali ad ingresso libero ma ad offerta ben gradita.
Un moto spontaneo di aiuto che si è acceso via via che ha preso corpo la consapevolezza che il fallimento dell’azienda di cui si parlava da tempo stava diventando realtà. Momenti di rabbia e smarrimento, seguiti da quelli di sconforto e preoccupazione per il futuro.
Il mutuo da pagare, la mensa dei figli e lo scuolabus come spese mensili fissi, e poi i soldi che non bastano mai per mangiare e per vestirsi. Sentirsi soli e disperati in questi momenti è un attimo. Sapere che il collega con cui hai lavorato fianco a fianco per anni e che magari non ti stava nemmeno tanto simpatico, è disponibile a darti una mano per sentirti meno solo, è certo di conforto. E non solo con una pacca sulle spalle, ma organizzando un fondo di solidarietà alimentato con donazioni spontanee anche di pochi euro, vendita di torte fatte in casa, offerte raccolte durante concerti fai da te.
Quello dei lavoratori della Pontelambro non è un caso isolato. Prima di loro, a decidere di scommettere in prima persona soldi propri per cercare di dare un futuro alla loro azienda, sono stati i 570 operai e impiegati della Sisme di Olgiate che hanno messo sul tavolo una fideiussione di 700 mila euro per finanziare parte dell’investimento necessario ad avviare una nuova linea di produzione ed evitare così la fuga di lavoro in Slovacchia. Un caso scuola, che ha attirato, giustamente, l’interesse dei media nazionale per la sua specificità.
Migliaia, secondo quanto rivelato dal segretario della Fiom Alberto Zappa, i lavoratori comaschi che ricevono lo stipendio con due o tre mesi di ritardo, aiutando così la loro azienda che deve fare i conti con gli insoluti dei clienti e con i cordoni della borsa chiusi della banche, a mantenere i conti a galla. Basta frequentare un po’ le fabbriche, parlare con i sindacalisti che stanno in prima linea e con gli imprenditori in trincea per cercare di portare fuori dalle secche le loro aziende, per accorgersi con l’onda lunga di questa crisi sta ridisegnando la mappa dei rapporti tra le persone. Meno egoismo e più solidarietà, nella consapevolezza, forse, che stiamo tutti sulla stessa barca. Gli esempi, anche piccoli di auto aiuto sono quotidiani.
Quelle che mancano all’appello in questo momento sono le voci istituzionali. Vuoto pneumatico della politica, non sempre adeguato al momento la risposta delle associazioni imprenditoriali che non a casa stanno facendo fatica a riconfermare a fine anno la tessera ai soci. Tavoli e tavolini s’imbandiscono con grandi menù ma poco nel piatto e ancora meno quello che resta nella pancia. Analisi (costose), numeri (impietosi), non fanno altro che raccontarci una realtà che già conosciamo e a cui chi resta senza lavoro non può far altro che opporre la soluzione della crostata.
Elvira Conca