Anche a Como si è ripetuto lo show della Guardia di Finanza, con un blitz che ha portato alla verbalizzazione di 96 irregolarità su un totale di 155 controlli. Proporzioni quasi imbarazzanti, che ricordano molto da vicino quelle da Cortina in poi. Dobbiamo impugnare i forconi e scendere in strada contro i commercianti? È la reazione più facile, ma anche quella sbagliata.
E non solo perché molte delle contestazioni fiscali si risolveranno a ragione degli esercenti, con tante scuse per lo sputtanamento. Soprattutto, perché l’approccio muscolare all’evasione fiscale, se da un lato rappresenta un tentativo fuori tempo massimo e un po’ melodrammatico di contrastare un fenomeno dalle dimensioni incontrollate, dall’altro rischia di essere nulla più di una gara a chi sputa più lontano. L’evasione è più sintomo che causa del male italiano.
Partiamo da un dato di fatto: se pagassero tutti, non è vero che pagheremmo meno. Molto più probabilmente, il settore pubblico scialerebbe di più. Ma c’è un problema ancora più serio: non si può pensare, come molti sembrano fare, che la raccolta dei fondi sottratti al fisco potrebbe avvenire «a parità di altre condizioni». Se, come per magia, l’evasione potesse essere sconfitta, assisteremmo a una crescita proporzionale della pressione fiscale, e con essa dei costi di produzione di beni e servizi. Questo spingerebbe molte piccole imprese e negozi fuori dal mercato, costringendoli a chiudere e licenziare i dipendenti. Siamo disposti a pagare questo prezzo pur di catturare gli evasori? Siamo disposti a mettere nello stesso calderone chi si rifiuta di pagare le imposte per fare la bella vita, e chi invece pagando le imposte smetterebbe di vivere? Oggi la pressione fiscale viene stimata attorno al 45 per cento; realisticamente a fine anno rifaremo i conti e troveremo un valore ancora più alto. Questo livello di prelievo è incompatibile con l’esercizio dell’attività imprenditoriale e, se non giustifica, almeno spiega la ritrosia degli italiani a essere leali con l’erario. Senza contare le numerose ingiustizie e disparità di trattamento a cui essi sono sottoposti: perché le tasse vanno pagate con precisione millimetrica, mentre lo Stato può ritardare i suoi pagamenti ad libitum?
Perché debiti e crediti non possono, nei fatti, essere pienamente compensati? Quella a cui stiamo assistendo è la strategia della disperazione, con lo Stato che si affanna ad anticipare la riscossione dei crediti e si sforza di allontanare i debiti, senza curarsi dell’effetto che tutto ciò avrà su debitori e creditori (che spesso coincidono).
Se la radice dell’evasione fiscale sta nell’eccesso di fiscalità, la risposta non può essere chiesta ai rambo del fisco, ma deve arrivare dalla politica. Che deve per prima cosa esprimere la diagnosi corretta: le imposte non vengono pagate perché non sono pagabili. Sono, contemporaneamente, troppe e troppo alte. Tutte le classifiche internazionali dicono che l’Italia è uno dei paesi più esosi al mondo (senza essere tra i paesi che offrono servizi migliori) e che da noi compilare la dichiarazione dei redditi è un mestiere a sé, mentre altrove è una scocciatura da pausa caffé.
La difficoltà e il tempo necessari a pagare, oltre agli errori e al contenzioso che ne emergono, sono una tassa essi stessi.
Per questo rintuzzare gli evasori richiede anzitutto un impegno vero e credibile nella riduzione della spesa pubblica e con essa delle tasse. Se non si toccano tutti i termini dell’equazione, non si può sperare che il risultato cambi.
Carlo Stagnaro