Non è il caso di sorprendersi per il successo (quasi il18%) del Front national al primo turno delle presidenziali in Francia.
Anche in questo caso Parigi rimane Europa e ne riflette il cono d’ombra più ambiguo: Austria, Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia, per non parlare di Ungheria e di qualche deriva italiana. Quello dell’estrema destra, non solo xenofoba, non è neppure uno spettro che s’aggira per il Vecchio Continente, bensì una realtà in carne e ossa che va analizzata criticamente, da prendere per quello che è: una risposta sbagliata e pericolosa a problemi reali, una febbre contagiosa in un’Europa depressa e colpita nella pancia da vecchi e nuovi morbi, moltiplicati dalla Grande Crisi. Marine Le Pen ha ereditato per via paterna un vecchio arnese reazionario e xenofobo e lo sta trasformando con un restyling meno impresentabile, lanciando un’Opa sulla destra repubblicana (che in Francia vuol dire democratica) e catturando il voto operaio e popolare in libera uscita dalla sinistra. È quel che fanno tutti i partiti populisti d’Europa che non giocano più da tempo sull’asse novecentesco destra-sinistra, ma sul nazionalismo identitario e sul protezionismo economico contro la società aperta, liberale ed europeista.
Il Front national, che è sul mercato da quarant’anni, è però il progenitore della destra radicale e antisistema europea e ne detta l’agenda: resta il punto di riferimento irraggiungibile di una corrente di pensiero trasversale nella società europea, capace di catturare al contempo le categorie ultime della provincia più profonda e le prime della metropoli modaiola, riunendo disperazione popolare e rivalsa della vecchia borghesia di censo.
La sua forza sta nel rompere gli schemi, nel denudare le ipocrisie delle relazioni politiche convenzionali (il «politicamente corretto») e di interpretare un senso comune che si va formando nel ventre della società europea, complice la Grande Crisi. Nella riproposizione, in sostanza, di un nemico dalle mille vite e volti, un rancore che si autoalimenta perché è fortemente ancorato al territorio e coglie direttamente quel che annusa il popolo più minuto: l’immigrato certo, anche se in questa fase storica è leggermente ai margini, ma ora più di ieri i partiti classici frustati con disprezzo nella loro inconcludenza e così ossequiosi dei riti della mediazione democratica, il capitalismo tout court che affama il popolo, la tecnocrazia europea che fa macelleria sociale. Insomma, questa visione apocalittica che seduce ma non convince affatto perché semplifica la realtà fino a stravolgerla ripropone il vecchio schema di un popolo dotato di valori innati oppresso da un’élite al servizio del grande capitale. Il tutto miscelato nella rivalutazione fuori tempo dello Stato nazione a dispetto di una realtà che, comunque la si voglia giudicare, ha una forza inarrestabile dettata dalla globalizzazione e che sposta la governabilità fuori dai confini.
Quel che è cambiato è anche il giudizio dell’opinione pubblica, in cui l’indignazione arretra per arrendersi all’evidenza di un fenomeno che da sparuto e volatile è diventato protagonista fisso della geografia politica. È l’esito prevedibile e amaro della Grande Crisi, del senso d’ingiustizia trasmesso dal rigore, rigore, rigore (vedi il dramma della Grecia), da classi dirigenti tecnocratiche capaci di parlare ai mercati ma non all’opinione pubblica. In fondo l’espandersi dell’estrema destra dice molto di una democrazia malata e di pezzi di popolo che si sentono abbandonati: non solo protesta, ma anche un grido d’aiuto.
Franco Cattaneo