Lasciando gli Usa per parlare dei problemi di casa nostra, non c'è dubbio che l'opinione pubblica sia sconcertata. Processi di primo grado che terminano con condanne esemplari e sentenze d'appello che ribaltano i verdetti e scagionano gli imputati: c'e di che restare allibiti soprattutto se la cosa si ripete con regolarità; vedi il caso Perugia e, ora, quello di via Poma. Anche a me l'assoluzione di Raniero Busco ha colpito. E non perché lo ritenga colpevole. Piuttosto perché non ho capito su cosa si reggesse la prima sentenza. Il 7 agosto del 1990 Simonetta Cesaroni veniva uccisa da un killer che infieriva sul suo corpo, colpendola con un'arma da taglio soprattutto nelle zone genitali. Per poi lasciarla nuda a terra in un delitto francamente a sfondo sessuale. Non c'è dubbio che le indagini svolte 22 anni fa si siano dimostrate insufficienti; forse per superficialità, o magari per l'assenza di una cultura investigativa e degli strumenti oggi in possesso di polizia e carabinieri.
Vennero sospettati inquilini dello stabile, il portiere Vanacore, si registrarono improbabili sovrapposizioni con l'omicidio della contessa Filo della Torre e con i servizi segreti. Poi nulla per anni, fino alla riscoperta degli indumenti della povera ragazza, dimenticati in un armadietto dell'istituto di medicina legale di Roma. Ecco allora nuove analisi, la scoperta di tracce biologiche del fidanzato dell'epoca, Raniero Busco appunto.
Da qui altri accertamenti, altri campioni, una foto del seno della vittima con una lesione somigliante a un morso. Che lo è di certo per il primo grado, e nemmeno un po' per gli esperti dell'appello.
Il problema, con i cold case, i vecchi casi, è che testimonianze e alibi valgono relativamente. Il ricordo e il riconoscimento già lasciano grandi dubbi se registrati pochi giorni dopo un delitto, figuriamoci dopo 22 anni. In situazioni simili diventano decisive le prove scientifiche, potenzialmente oggettive. Potenzialmente, perché vanno sempre interpretate. Anche ammesso che la lesione sul seno di Simonetta fosse un morso, è possibile confrontarne le caratteristiche da una foto sgranata dell'epoca e confrontarle ora con il calco della dentatura del sospettato? Si tratta, prima di ogni altra cosa, di una questione di metodo. Certo la procura ha portato avanti un'ipotesi in cui tanti risultati parziali si inscrivevano in un quadro logico. Peccato che un quadro logico possa venir affiancato da altri scenari ipotetici altrettanto logici.
Il risultato è che le prove, il Dna, il morso, le tracce, non hanno superato la soglia oltre la quale viene meno ogni ragionevole dubbio.Un monito per i casi di Sara Scazzi e Melania Rea: non forziamo le interpretazioni, non trasformiamo compatibilità in certezze. Dichiarare fin dalla prima presentazione in aula quale sia il margine di errore di una prova scientifica, sarebbe non solo doveroso, ma intellettualmente onesto. Ed eviterebbe di passare dall'immagine di reparti speciali che risolvono ogni delitto a quella di "esperti inaffidabili".
Ho citato Perugia e via Poma. Avrei dovuto aggiungere Garlasco, per i molti dubbi che ha lasciato. Ma anche il caso dell'Olgiata e quello di Elisa Claps, risolti dopo molti anni. Al solito non è la scienza sul banco degli imputati. Piuttosto chi la interpreta.
Massimo Picozzi
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