Il Primo Maggio il lavoro torna in piazza, ma non nei negozi. La maggioranza dei commercianti comaschi ha infatti deciso, come spiega il loro presidente Giansilvio Primavesi, che nella giornata della festa del lavoro le saracinesche dei negozi saranno tenute abbassate.
Rinviata dunque ogni tentazione di acquisto di scarpe e completini primaverili anche se in verità ci sta già pensando il brutto tempo a tenerla lontana.
A chi soffre di sindrome da shopping compulsivo non resterà che andare a caccia di qualche dissidente che certamente ci sarà o fiondarsi in un centro commerciale che qualche appeal deve pure averlo visto l’affollamento che si trova ad ogni ora del giorno (domeniche comprese). Oppure consolarsi con un bel cono gelato con doppia panna montata. Non si ha notizia, infatti, di serrata generale di gelaterie e bar.
Al di là della scelta legittima dei commercianti di voler starsene in famiglia («è una giornata "sacra"») e ai costi superiori ai benefici di un’apertura extra (la lobby delle commesse comincia ad avere un suo peso!), per una città come Como che da anni sta discutendo cosa fare da grande, presentarsi ai turisti con le porte dei negozi chiuse in una giornata di festa non è un bel biglietto da visita. Questione annosa, oggetto di dibattiti infiniti, divisioni laceranti, inchieste giornalistiche e chi più ne ha più ne metta, ma senza una vera soluzione. Almeno per ora.
E dire che i sedici candidati sindaco sbandierano il turismo come panacea di quasi tutti i mali di questa città depressa, unico Gerovital per rianimare le giornate e le serate dentro e fuori le mura, per riportare sul palcoscenico internazionale uno degli scorci più belli del lago di Como. Peccato che qualsiasi ricetta, nuova o vecchia che sia, non può funzionare senza un ingrediente fondamentale: i negozi, i bar e i ristoranti aperti tutti i giorni.
Una città è viva e attraente non solo per chi ci vive e lavora ogni giorno ma anche per i turisti che la scelgono, se i servizi funzionano, le strade sono pulite e senza buche, i musei sono aperti, le mostre interessanti ma soprattutto se c’è un senso generale di accoglienza. Chi si candida a governare questa città non può prescindere dal siglare un patto di ferro con chi questa città la rende viva. I suoi abitanti, certo, ma anche con chi in questa città lavora e crea ricchezza e benessere.
Giovedì tutte le associazioni imprenditoriali presenteranno ufficialmente ai candidati una proposta di patto. Si tratta di un documento in cui, invece di elencate cose (tante) che non hanno funzionato finora, faranno delle richieste e delle proposte. Per la prima volta, dopo anni di reciproca indifferenza e diffidenza, industriali, artigiani, commercianti si dicono disponibili a rimettersi in gioco provando a fidarsi della politica. Certo, il solco scavato in questi anni tra i due mondi è enorme: lo scempio del lungolago e lo scandalo Ticosa hanno dato il colpo di grazia. Riacquistare fiducia nos sarà facile.
Giocare la carta del turismo per fare un futuro alternativo alla città della seta significa tuttavia un’assunzione forte di responsabilità anche da parte degli operatori economici, commercianti, albergatori e ristoratori in primis. I veri ambasciatori di Como nel mondo. Un caffè fatto senza cura, un cliente accolto in negozio senza un sorriso, un pranzo poco curato e fatto pagare a peso d’oro, sono come macchie indelebili sulla giacca di lino bianca dell’ambasciatore.
Significa cambiare mentalità, uscire dalla concezione della bottega e aprirsi a quella del servizio. Che oggi non significa solo un caffè e un gelato e quattro panchine vista lago, ma alternative valide, ad esempio per chi cerca una vacanza nel verde e nella natura. Per chi viaggia con i bambini piccoli (gli stranieri cento volte più disinvolti e avventurosi di noi apprensivi genitori italiani) e ha bisogno di spazi dove farli giocare o zone davvero senza traffico per farli camminare.
I negozi aperti tutto l’anno sono, forse, un dettaglio, ma è dai dettagli che si riconosce un vero ambasciatore.
Elvira Conca