Partiamo da un considerazione generale: c'è chi sostiene sia in atto una pericolosa deriva, all'interno di un quadro più ampio e sconfortante. Sappiamo che le emozioni appartengono alla parte più antica del nostro cervello, quella capace di valutare e reagire ai pericoli per la sopravvivenza, innescando risposte immediate. Nel corso di migliaia di anni, lo sviluppo della corteccia cerebrale ci ha regalato capacità di pensiero sempre più raffinate, e un controllo sul cervello emozionale.
Ma i tempi moderni non sembrano premiare le risposte meditate, le riflessioni critiche, il ragionare prima di rispondere. A ogni sollecitazione corrisponde una reazione che assomiglia sempre più a un riflesso, come quelli che i neurologi ottengono picchiando sul ginocchio con il loro martelletto.
Possibile che si stia tornando indietro, che la mente primitiva stia riappropriandosi del nostro modo d'essere al mondo ? Naturalmente la risposta è: fortunatamente no, e casi come quelli di Firenze restano un'assoluta eccezione. Cominciamo col dire cosa la rabbia non è: non è un sentimento, una condizione affettiva che dura più a lungo; e non è una passione, situazione anch'essa non fugace, ma più profonda e sconvolgente del sentimento. La rabbia, o se volete, la collera, è un'emozione; le emozioni hanno lo scopo di valutare costantemente ciò che accade nell'ambiente intorno a noi, in modo da poter reagire adeguatamente. In qualunque situazione che preveda un confronto, il nostro sistema emotivo ricalibra costantemente il nostro atteggiamento in rapporto al flusso di informazioni che ci arriva. E insieme regola il nostro corpo, preparandoci alla necessità di un'eventuale azione.
Ma perché la rabbia ci colpisce, e con chi la proviamo ? In primo luogo, ci arrabbiamo solo nel caso in cui attribuiamo la responsabilità delle nostre frustrazioni o disagi agli altri. A punto numero due, l'evento che suscita rabbia ci appare del tutto evitabile, per nulla ineludibile o necessaria. La rabbia, in questo caso, è rivolta contro chi avrebbe potuto evitarci la frustrazione e non l'ha fatto. La terza e ultima caratteristica è che chi la prova è convinto che non ci sia una motivazione valida per il fatto o il comportamento che scatena in noi l'emozione. E in più che mandarci in collera non porta alcun vantaggio all'altro, o almeno non gli abbia prodotto guadagni proporzionati al danno che ci ha arrecato.
Solo l'undici per cento delle persone si arrabbia per episodi volontari ma giustificati dalle circostanze?
Quanto all'oggetto della nostra rabbia, solo in un quinto dei casi, chi ci manda in bestia è un perfetto estraneo; in un terzo invece la collera la indirizziamo a persone amiche, a gente che ci sta simpatica, e poco più della metà alle persone che amiamo di più.
Introdotto il tema, veniamo al fattaccio. Innanzitutto la rabbia di Delio Rossi verso il suo giocatore ha varcato i limiti dell'emotività per trasformarsi in un atto di aggressione. Viene in mente un parallelo famoso, quello della testata di Zidane a Materazzi durante la finale dei mondiali del 2006. Anche in quel caso si è parlato di provocazione, ma nonostante il giocatore francese abbia perso il controllo, è riuscito in qualche modo a trattenersi, evitando di colpire l'avversario al volto, ma piuttosto affondando nella meno rischiosa zona del torace.
La rabbia va riconosciuta, e soprattutto gestita.
Pensate a Jose Mourinho, e alla sua straordinaria capacità di utilizzare emozioni e provocazioni per compattare le proprie squadre contro "il nemico"; eppure, persino lui, lo scorso anno ha perso la misura, finendo per infilare un dito nell'occhio di Tito Vilanova, ai tempi vice di Pep Guardiola e suo erede alla panchina del Barcellona.
Il fatto è che Mourinho, censurabile e censurato nel gesto, forse non voleva arrivare al contatto, mentre l'allenatore della Fiorentina l'ha cercato, e se non lo avessero trattenuto le cose sarebbero finite davvero male.
Personalmente il fatto mi spiace, perché da appassionato di calcio ho sempre ascoltato Delio Rossi nelle interviste, riconoscendogli garbo e pazienza; ma anche determinazione, ogni qualvolta il presidente della società che allenava contestava l'impegno della sua squadra.
Posso solo pensare che un uomo abituato da decenni a calcare i campi, a conoscere i pregi, e soprattutto i difetti del sistema, sia stato portato a un punto di esasperazione eccezionale.
Il raptus non esiste. Ma da educatore, da psicologo quale un allenatore deve essere, avrebbe dovuto evitare di rovinare un'immagine costruita in anni di lavoro.
Massimo Picozzi
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