Solo cinque anni fa Stefano Bruni venne riconfermato primo cittadino al primo turno, conquistando 25.765 voti. Certo, era appoggiato anche da Lega e Udc, ma il confronto con il risultato ottenuto dalla Bordoli (sostenuta solo dal Pdl) è comunque eclatante: meno 20.479 preferenze. Il centrodestra, insomma, ha dilapidato un patrimonio di migliaia di voti: 11.355, per l'esattezza, se depenniamo dal conto i 2.767 di Alberto Mascetti (Lega) e i 1.071 di David D'Ambrosio (Udc). Oltre ottomila - il 10% degli abitanti di Como città - se contiamo anche Forza Cambia Como, la lista di Sergio Gaddi.
Questo significa che il centrodestra si è squagliato come neve al sole e che Laura Bordoli, per rimontare il tracollo del primo turno, è attesa da un'impresa titanica.
Ma significa soprattutto un'altra cosa: il blocco moderato, tradizionalmente maggioritario in città, non è più rappresentato. O, meglio, che si ritrova una rappresentanza a dir poco dimezzata. Il Pdl, certamente, paga la parabola discendente di Berlusconi e una serie di errori a livello locale: la gestione litigiosa del partito, la pesante eredità di Bruni, le fronde interne, la scelta di un candidato che alla prova dei fatti ha dimostrato finora solo timidi accenni di appeal. E, anche per la sciagurata gestione dell'ultimo mandato amministrativo, ha perso per strada la capacità di intercettare il voto conservatore e moderato. Voto, per inciso, che si è trasformato in non voto (il tasso di astensionismo è schizzato quasi al 40%), in furore antipolitico (eclatanti gli exploit di Alessandro Rapinese e dei grillini) o in scelte disperse in mille rivoli.
A questa tornata elettorale, infatti, Como è arrivata sull'onda della frammentazione, dell'individualismo e delle manie di protagonismo.
Sedici candidati sindaco (9 non hanno nemmeno raggiunto la soglia del 3%), 24 liste, oltre 700 candidati. Di tutto di più, insomma.
E così, alla fine, a parte Lucini (che ha fatto la sua corsa dichiarata e onesta con il vessillo del centrosinistra) e qualche altro personaggio carismatico di luce propria o riflessa (Rapinese e, in certa misura, Gaddi, Molteni e i grillini), sono scese in campo persone che non hanno saputo raccogliere apprezzamento e consenso dagli elettori, come dimostrano le operazioni velleitarie messe in campo - pur con sportività e signorilità - da Vierchowod e Peronese. Persone per bene, certo, ma che non avevano programmi convincenti e, soprattutto, che non sono state capaci di entrare in sintonia con la società comasca. Al pari dei vari D'Ambrosio, Lionetti e Pastore, tutti non pervenuti.
Quello che è mancato, invece, è stata una rappresentanza autentica della società civile. Che fine hanno fatto i Taborelli, i De Santis, i Traglio? Anche questa volta il tanto evocato cavaliere bianco non si è presentato all'appello. La società civile che poteva dare idee e soluzioni è rimasta in casa, in ufficio, in azienda. Non si è spesa in prima persona. Ha marcato visita sia nella fase decisiva della scelta dei candidati, sia nella raccolta del consenso. La politica, insomma, è stata tradita dalla Como (almeno teoricamente) migliore ed è fin troppo facile prendersela adesso con i partiti. Se il blocco moderato - almeno a livello partitico - continua ad essere gestito da Butti o è stato rappresentato per dieci anni da Bruni è anche colpa di chi non si mette in gioco, della mancata assunzione di responsabilità singola e collettiva.
A pochi mesi dal voto, su queste colonne, c'è chi ha scritto: «Basta lagne, avanti i capitani coraggiosi». Che, parafrasato, significa: basta alibi, più responsabilità, impegno, passione civile. Bene, non si è fatto avanti nessuno. Non c'è stato né il Gelpi né lo Spallino di turno, stavolta. Non un capitano coraggioso. E questo è il risultato.
Emilio Frigerio
© RIPRODUZIONE RISERVATA