Anche a Bologna, la scelta del candidato dell'epoca, poi perdente, fu travagliata. Pure lì toccò a una donna, Silvia Bertolini essere mandata allo sbaraglio come Laura Bordoli. La differenza è che quella di Guazzaloca fu una parentesi, l'interruzione di una lunga ondata rossa,. Questa di Como e non solo, potrebbe essere una svolta senza ritorno. Non perché il centrosinistra abbia la certezza di aprire un ciclo in una città che, nonostante il momentaneo strabismo, continua a guardare a destra. Bensì perché sulla sponda moderata, sarà più come prima.
Perché alla fine, bisogna dirla tutta. Sì, va bene dietro la Caporetto del PdL c'è l'eredità avvelenata dell'amministrazione Bruni. Certo, ha pesato la gestione autocratica del coordinatore provinciale Alessio Butti (che tra le virtù non ha quella della pazienza esponenziale necessaria per tenere le redini di un partito in cui la smania di comando e potere è contagiosa come il morbillo). Va da sé che lo scisma di Gaddi contro il potere del senatore ha avuto il suo perché. Se non altro a convincere molti elettori a non dannarsi per cercare il certificato elettorale dimenticato in fondo a chissà quale cassetto.
Poi la candidata, povera anima. Laura Bordoli messa lì a fare la foglia di fico alle tante, troppe vergogne.
Tutto questo è vero. Ma se la causa principale della debacle fosse un'altra? Il colmo è, che neppure a farlo apposta, ce l'avevamo in casa la principale cagione del crollo dell'impero pidiellino. Ed è proprio l'imperatore: Silvio primo e unico. Che nei giorni in cui si consumava il cupio dissolvi del Pdl al secondo turno delle Comunali, se ne stava sul Lario a fare il turista nella splendida dimora acquistata da Marcello Dell'Utri. Tra una gita, una comparsata, una foto con la gente, due barzellette buttate lì, neppure una parola di ossigeno a Laura Bordoli. E neanche, va detto, un buffetto a Sergio Gaddi che si piccava di essere l'unico interprete dell'afflato liberale della Forza Italia che. Un Cavaliere inesistente nella campagna elettorale comasca.
Guarda caso questa è l'unica elezione da quando ha varcato la soglia della politica, in cui l'ex premier è rimasto in disparte. Certo, aveva fiutato la sconfitta. Ma forse ha anche voluto lanciare un messaggio ai vari capi, sottocapi e capetti del PdL che stanno a scannarsi per un'eredità impossibile perché non trasmissibile.
«Visto cosa succede se io mi chiamo fuori?». E i fatti, anzi i voti, gli danno ragione. Il problema ora, e non è una questione da poco, è se riuscirà a risaltare dentro. Girano voci di un predellino due, di un ritorno alla Forza Italia delle origini (le origini sono sempre evocate quando un ciclo politico si avvia al tramonto), di un abbraccio con Casini, di un Montezemolo dietro l'angolo.
Nessuna di queste ipotesi però sembra scaldare il cuore degli elettori moderati. Vero che il Cavaliere non è il tipo che si ritira da sconfitto. Ma anche l'età gioca contro di lui. E forse neppure lui ha più, come ha scritto qualche tempo fa un quotidiano nazionale, il sole in tasca, il tocco magico che trasforma un candidato ranocchio in principe vincitore.
Non a caso, nel commentare di malavoglia questa tornata elettorale che lo ho visto spettatore e non protagonista, ha detto due cose significative. La prima è che per rilanciare il centrodestra ci vorrebbe il Berlusconi del 1994. La seconda è che per battere Grillo servirebbe uno che spara cazz... più grosse di lui. Che sia la stessa cosa?
Francesco Angelini
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