L'Europa poteva essere una grande Svizzera: una confederazione di entità con ampio grado di indipendenza, federate per svolgere assieme alcune funzioni, a cominciare da quelle per le quali fare massa critica servirebbe: pensiamo alla difesa. I suoi padri fondatori volevano fosse una grande Francia: uno Stato federale, ovvero centralizzato, con una capitale dal peso specifico via via superiore a quello degli Stati membri. Ora la proposta è farne una grande Italia: un SuperStato nel quale la parte “forte”, composta grossomodo da Germania, Paesi nordici, ex Europa dell'Est, accetta di farsi carico del debito della parte debole.
È uno scenario possibile? Un economista vicino alla CDU tedesca, Kurt Lauk, l'ha spiegato senza mezzi termini al Corriere della sera: se davvero si facessero gli Eurobond, in Germania scoppierebbe la rivoluzione. Hai voglia a spiegare ai tedeschi, come s'è incaricato di fare un gruppo non piccolo di economisti, che la Germania dall'euro ha tratto profitto, che è la moneta unica che le ha consentito di aumentare le esportazioni. I cittadini tedeschi sentono come supremamente ingiusta la richiesta, che pure viene loro reiterata giorno dopo giorno dopo giorno, di assumersi gli oneri dell'eccessiva spesa pubblica altrui.
Se guardassimo alla situazione attuale con la necessaria onestà intellettuale, dovremmo ammettere che c'è un problema europeo e un problema italiano. Il problema europeo è legato all'architettura dell'euro. Il guaio dell'euro non risiede nel suo essere una moneta senza Stato. Il problema è che è una moneta senza Stato pensata perché si costruisse quello Stato intorno. L'euro poteva, e forse ancora potrebbe, essere una sorta di “gold standard” (lo standard aureo che resse per secoli l'economia mondiale) con in più il vantaggio di avere una Banca centrale: una moneta sottratta all'arbitrio dei governi nazionali, meno permeabile alle pressioni della politica, votata ad assicurare maggiore stabilità e certezza al risparmiatore.
È precisamente per questo motivo, perché i padri della moneta unica la pensarono come un mezzo e non come un fine in sé, che siamo dove siamo. Il fatto che non vi siano regole per consentire l'uscita dalla moneta unica di chi non è più in grado di rimanerci è una conseguenza di questa visione: per gli europeisti, l'euro non è una valuta, è un destino. E il destino non a caso è sempre il convitato di pietra della tragedia greca.
Ma oltre al problema dell'euro, all'assenza di un sistema intelligente per gestirne le crisi, c'è un problema italiano. Questo problema è immediatamente visibile per quanti si colleghino al sito dell'Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it) e guardino il nostro contatore del debito pubblico. Il debito pubblico del nostro Paese pesa quasi duemila miliardi, è il frutto maturo di cinquant'anni di spesa pubblica eccessiva e politiche dissennate immaginate e poste in essere a favore di specifici gruppi d'interesse, si fa sempre più arduo da finanziare.
Cosa fa il buon padre di famiglia, sommerso dai debiti? Vende. Se ha due case, comincia a vendere quella al mare. Se ha due macchine, si priva della cabriolet e va al lavoro con l'utilitaria.
Anche in questi giorni, nonostante una tempesta sui mercati che ricorda da vicino quella che comprensibilmente travolse Berlusconi, il Tesoro non parla di dismissioni. I nostri politici, e i tecnici che fanno temporaneamente le loro veci, preferiscono tenersi le quote di Eni, Enel e Finmeccanica, una Rai in cui piazzare giornalisti amici, un patrimonio immobiliare da usare strumentalmente per creare consenso, che dare un segnale al mondo: sappiamo che il debito pubblico è un problema serio e siamo pronti ad occuparcene.
È facile per la nostra classe dirigente dare la colpa di quanto sta avvenendo alla speculazione internazionale o alla signora Merkel. Più complicato andare in cerca del nemico dell'Italia nell'unico posto in cui lo si può vedere: davanti allo specchio.
Alberto Mingardi
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