La sentenza che obbliga la Fiat ad assumere 145 operai con la tessera della Fiom innanzitutto è sbagliata, visto che Fiom non ha firmato il nuovo contratto collettivo della Fiat e quindi non gode dei diritti sindacali concessi alle sole sigle firmatarie, così come stabilito dalla legge. Ma, soprattutto, è grottesca perché figlia di una mentalità "sovietica" che demanda a un elemento del tutto estraneo - il magistrato - la scelta dell'assunzione di un lavoratore che in qualsiasi paese normale risiede nell'unica e insindacabile volontà dell'imprenditore. Qui invece no, il dipendente non può - anzi non deve - essere selezionato da chi mette il capitale e si espone al rischio d'impresa e non può neppure essere assunto per competenza, merito o mansione, ma solo per appartenenza a questa o quella casta sindacale (o politica o familistica o corporativa, poco importa).
In ogni azienda deve per forza esserci una quota Fiom, deve per forza esserci un manuale Cencelli all'interno del quale lei e tanti altri debbono essere rappresentati, deve per forza esserci l'azzeramento dell'onere della scelta individuale a favore dell'assunzione a prescindere. Insomma, se non assumi in base alle quote sei colpevole di discriminazione. Disarmante.
E quindi, di paradosso in paradosso, d'ora in poi ci vorrà anche una quota per la Cisl e una per la Uil e una per i belli e una per i brutti e una per i bassi e gli alti e i grassi e gli antipatici e i leccapiedi e i mormoni e i ballerini di flamenco e gli interisti e le meteorine e le Madonnine infilzate e i comici di centrosinistra e le sottosegretarie di centrodestra e gli sciupafemmine e i figli di Maria e i figli di buonadonna e così via in una pesca a strascico a mezzo tra Kafka e Fellini che da qualche giorno partiti pseudo-antagonisti e sindacati ottocenteschi rivendicano come preclaro simbolo delle meravigliose lotte dei tempi di Carlo Codega e che invece rappresentano solo un mondo già morto e sepolto all'interno del quale stanno solo difendendo le loro pericolanti quote di potere.
Ma questa è l'Italia. Perché tutto ha una storia. E la nostra storia è nota e viene giù dritta da Guicciardini a Longanesi, visto che questo è il Paese che l'hanno invaso tutti e che con tutti ha dovuto trattare e che non ha vissuto né rivoluzione protestante né rivoluzione francese e che non ha mai finito una guerra con l'alleato con cui l'aveva iniziata e che nel secondo dopoguerra è stato governato da due partiti-mamma onnivori e anti-liberali che avevano riferimenti "altri" rispetto alla "Patria" e dove nella politica e nell'impresa pubblica assistita non c'è mai uno che vince e uno che perde, ma sempre due che alla fine si mettono d'accordo. Ed è per questo che qui sarebbe stato - ed è - impensabile trovare un leader come la Thatcher che ha basato tutta la sua politica sul principio "la società non esiste, ci sono solo gli individui" e che grazie a questa leva rivoluzionaria ha salvato l'Inghilterra dalla disastrosa situazione economica degli anni Settanta.
No, qui non è possibile. E non si fa niente. E si continua inesorabilmente a non fare niente. Niente di niente, imbozzolati dentro un unico e immutabile filo grigiastro che tiene assieme Amato, Prodi, Berlusconi e Monti nell'imperativo categorico del "più tasse-niente tagli-tutto Stato-zero libertà d'impresa" che nei giorni scorsi ci ha fruttato le irridenti ironie del Wall Street Journal sulla nostra risibile riforma del lavoro e quelle pesantissime dello Spiegel sul potere abnorme del sindacato.
Ora, è evidente che il liberismo totalizzante anglosassone è impensabile in un paese come il nostro ed è anche importante che la società resti un valore primario per regolamentare la legge della giungla dove si scannano i famelici spiriti animali dell'economia. Ma detto questo, ci vuole uno choc. Un trauma. Una svolta culturale che ci faccia guarire da questa nostra maledetta malattia infantile che piagnucola sempre sullo Stato che non fa niente per noi, che delega tutto a una magistratura occhiuta e ideologica e che pensa si possa continuare a mangiare a sbafo senza mai mettersi sul mercato della competizione.
Un'azienda non è un ente di beneficenza: se un giudice ti obbliga ad assumere 145 lavoratori o le si dissesta il bilancio o la si obbliga a licenziarne altri 145, sempre che non spunti fuori un tribunale a ordinare alla Fiat di vendere più auto per decreto. Non si crea il lavoro con le sentenze, con l'incertezza del diritto, con la zavorra della burocrazia e con uno Stato che non pensa ad altro che a tassare e sprecare, ma solo con la libertà, il merito e il coraggio. Che certi giudici e certi sindacalisti se ne rendano conto al più presto, sempre che non sia fondata l'impressione che questi si riterranno appagati solo quando tutte le aziende - anche quelle editoriali - saranno chiuse.
Diego Minonzio
© RIPRODUZIONE RISERVATA