Un candidato unico non cancella le tensioni che accompagnano questa difficile (difficilissima) transizione dal padre-padrone Umberto Bossi a Maroni, che rischia di diventare infinita e ricca di ostacoli. Nel suo ultimo – a tratti poco elegante e parecchio mesto – intervento, il Senatùr non l'ha mandata a dire a chi reclamava pulizia nel movimento, assumendo una posizione quasi estranea alle vicende interne degli ultimi anni. E in molti vi hanno letto un riferimento al suo successore, acclamato da molti ma ancora inviso ai bossiani di ferro, che fondamentalmente lo giudicano quel filo opportunista.
C'è poi la questione degli equilibri tra leghisti lombardi e veneti, con i secondi che da un lato sgomitano per affrancarsi dalla storica predominanza dei primi, ma che dall'altro devono fare i conti con una forte frattura interna. La vittoria di Flavio Tosi contro Massimo Bitonci ha lasciato molti più strascichi di quella di Matteo Salvini su Cesarino Monti. E l'ha fatto capire benissimo Roberto Calderoli dal palco, in quello che è stato l'intervento più significativo (e sincero) del difficile momento del Carroccio, con riferimento alla «voglia di qualcuno di farsi una fondazione o associazione. Queste cose le ho già viste con Comencini e non voglio vederle più». Al secolo Fabrizio, già segretario della Liga Veneta, protagonista dello strappo del 1998, al quale aderì anche Bitonci.
In Lombardia, i bossiani di ferro sono barricati intorno a Marco Reguzzoni nel bustocco, anche se in generale il movimento è molto più compatto sull'asse Maroni-Salvini. Ma c'è un problema in più, quello del rapporto con il governatore Formigoni, al quale si chiedono segnali forti su determinati temi (Expo, esodati, sanità) ma nel contempo gli si sventola sotto il naso la scadenza anticipata di mandato già l'anno prossimo. Il che potrebbe innescare un perverso effetto-domino sulle giunte piemontesi e venete di Roberto Cota e Luca Zaia, rette da un'alleanza Lega-Pdl.
Sullo sfondo, l'ombra lunga di un Bossi che di mollare il Carroccio del quale è stato padre-padrone non ha proprio intenzione. Al di là delle citazioni salomoniche e delle lacrime, il Senatùr pare aver ancora molto da dire nelle vicende del movimento. E soprattutto non pare disponibile ad accettare di essere il solo responsabile del patatrac. Anche se la teoria del complotto mostra oggettivamente la corda, e lo pensa la maggioranza dei militanti stessi.
Insomma, tanta carne al fuoco per Maroni: il suo primo intervento è stato carico di buoni propositi, ma politicamente interlocutorio. Ci sono sì le minacce di lasciare Roma, con annesse poltrone e prebende e la voglia di dare battaglia con sindaci e amministratori locali, ma alla fine la prima vera sfida del Carroccio è quella di ricostruire un'unità interna. E non sarà facile, soprattutto se strada facendo emergerà l'inevitabile voglia di chiudere qualche conto in sospeso.
Dino Nikpalj
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