Nessuno oggi può garantire un lavoro se il mercato dice no. Se la crisi obbliga le aziende a licenziare e se persino il settore pubblico (un tempo sinonimo di lavoro sicuro) annuncia tagli all'organico. Gli ultimi dati sulla disoccupazione, soprattutto tra i giovani, rendono evidente queste constatazioni. Oggi in Italia il 36% dei ragazzi non ha un lavoro. E tra questi, ce ne sono 2,3 milioni che non studiano e non cercano un posto. Sono i Neet (not in employment, education o training). Secondo un'indagine, in Lombardia sono il 15,7% degli under 25. Vivono in un limbo, senza oggi ma soprattutto senza domani. E senza un progetto che riempia le loro giornate. Una generazione che rischia di essere bruciata, come un tempo succedeva nelle trincee.
Il lavoro non è un diritto. E qualche volta i troppi diritti rischiano di ucciderlo. È difficile però stabilire il confine tra il giusto e il troppo. E spesso conoscenza, attenzione ed equilibrio non sono sufficienti a definire i contorni della parte giusta, come anche testimonia la complessa e dura vertenza che si sta combattendo alla Sisme di Olgiate Comasco.
Il mondo di oggi è liquido e piatto. È inafferrabile e non dà certezze, e la concorrenza può arrivare da ogni parte. Le imprese faticano a programmare, perché i portafogli ordini sono ridotti e le tecniche di gestione e produzione hanno cancellato i magazzini. Si produce per l'oggi o poco più. Si fatica a pianificare e i margini si sono ridotti, di conseguenza ogni decisione di investimento è complicata e vicina ad una scommessa. In un contesto simile, anche un sindacalista come Pio Galli - morto il 13 dicembre scorso - che fu segretario nazionale della Fiom-Cgil, non potrebbe più intitolare un suo libro "Da una parte sola" come fece per raccontare la sua attività sindacale e la vertenza della Fiat del 1980. Una lotta che si concluse con la marcia dei 40 mila che rivendicavano il diritto (questo sì realizzabile) a lavorare in una fabbrica normale. Oggi si fatica a capire quale sia la parte giusta perché - come ama ripetere un imprenditore - "tra i tanti precari del mondo del lavoro, oggi ci siamo anche noi che non riusciamo più a vedere il futuro delle nostre aziende". E se un tempo le ideologie potevano soccorrere chi doveva decidere da che parte stare, oggi sono ridotte ad attrezzi arrugginiti.
Nel mondo globale restano i riferimenti del merito e della competenza. Valori che in Italia ancora molti guardano con diffidenza se non con sospetto. Intanto il nostro paese arretra nelle graduatorie su competitività e attrattività degli investimenti. Da una decina d'anni - più o meno in coincidenza con l'ingresso della Cina nel Wto che ha sancito la totale globalizzazione dei mercati - l'Italia ha imboccato la parabola del declino economico e competitivo. Da noi più che nell'economia della conoscenza si lavora in quella delle conoscenze, in un familismo (inteso in senso lato) gelatinoso che annulla merito e impegno. Come ha notato Cesare Prandelli, siamo un Paese vecchio. Che ha bisogno di coraggio e di forza per cambiare. Perché - ha scritto Paul Krugman, premio Nobel per l'economia - «i giovani e i disoccupati meritano un altro domani».
Gianluca Morassi
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