Ma detto questo, oggi c'è una domanda, sopra a tutte le altre, a cui varrebbe la pena rispondere. Chi è quell'uomo? Da dove arriva? Qual è la sua storia, chi lo conosce? Qualcuno si sta facendo carico della sua sofferenza? Non vi sembrino strani questi quesiti. E' l'altra faccia della medaglia, quella che preferiamo nascondere o non guardare, ma che appartiene, che lo si voglia o no, a questa città e a tutti noi. Dietro ogni situazione di degrado, c'è una realtà di disagio sociale. E così, come ci preoccupa che i luoghi della città mantengano la loro dignità e la loro vivibilità, così ci preoccupa e ci inquieta molto di più che esistano sacche di disagio sociale sempre più vaste e sempre più nascoste.
Lo stesso problema che si trova ad affrontare Como, appartiene a tutte le città più o meno grandi che siano. Ci sono luoghi che si trasformano in contenitori della sofferenza e prima o poi questo diventa un problema. E' quasi impossibile una convivenza tra il disagio e chi vive la città passando per quelle vie e dovendosi scontrare con il volto fastidioso della sofferenza e del disagio. Soprattutto quando quel disagio veste forme di violenza verbale e fisica. Ma il problema esiste e non può essere semplicemente contenuto o nascosto.
Come si tenta di risolverlo nella maggior parte dei casi? Semplicemente spostandolo. Quando nel centro città diventa insostenibile, si lavora per spostarlo, magari in periferia, lontano il più possibile dagli occhi della gente. Ma così il problema non si risolve, semplicemente si sposta. E alla lunga questo ha un sapore di disumanità. Se non si affronta il problema del disagio, se non si prova ad incontrarlo, diventa soltanto un peso da spostare.
Come dire a quell'uomo ritratto nella fotografia: per favore si sposti più in là, perché in quei giardini non è concepibile. Non si può vedere, non si può guardare. Ma lui, probabilmente, non si è nemmeno accorto del fastidio che ha provocato. La sua è l'immagine della solitudine e per chi la vive in maniera così drammatica, è difficile rendersi conto degli altri. Sembra appartenere ad un mondo che non c'è più, gli eroinomani, quelli che dieci anni fa popolavano a frotte le nostre vie e le nostre piazze. Sembra quasi un sopravissuto e forse lo è veramente. Ma c'è, esiste, e non si può far finta di nulla.
Invocare più sicurezza, più vivibilità nelle nostre città è sacrosanto. Ma se insieme si pensasse anche non a contenere, ad espellere, ma ad affrontare il disagio, forse si costruirebbe qualcosa di più umano e di più duraturo. Del resto il disagio vero è quello delle centinaia di ragazzi che dal venerdì alla domenica si trasformano in un esercito di inconsapevoli tossicodipendenti, sniffando cocaina o ingurgitando pasticche colorate. Ma tutto questo avviene tra le mura dei locali e delle discoteche, non lo vediamo e dunque non ci da fastidio, non crea allarme sociale.
Tutto questo fa parte della difficoltà di vivere, della solitudine, che non possono essere condannati, ma semplicemente accolti. Se domani i nostri giardini fossero lindi e puliti ma a poche centinaia di metri qualcuno si infilasse un ago in vena, nascosto dietro ad un muro di periferia, sarebbe una sconfitta per tutti.
Massimo Romanò
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